SCUOLA SCIENTIFICA TESLIANA DI NATUROPATIA OLISTICA

scenario-vulcanico

GIUSEPPE CASSIERI

Recita all’aperto

 

Un timido zittìo, nelle due file del primissimo settore delle gradinate, parve più originato dal fatto che i ritardatari venivano a togliere la libertà alle gambe di chi si era permesso di allungarle che da profondo interesse al palcoscenico.
Agamennone stava consegnando al Messo la tavoletta per Clitennestra. “Non t’affretti?” gli domandava dalla tenda; e il Messo, nella pelle di un riservista chiamato ad alti incarichi per causa di forza maggiore, più che affrettarsi si dilungava sulla natura della fretta “M’affretto, sì; il sonno degli anziani è leggero ed essi son pronti ad ogni sussulto”.
“Che astro è quello che viaggia nel cielo?”
“E’ Sirio, mio signore, vicino alle sette Pleiadi, giusto a metà del cammino”.
“Non è affatto vero” mormorò il comandante del Distretto ai familiari raggiungendo i posti numerati a biacca: qualche cuscinetto era stato usurpato e nemmeno la sua autorità, ancorché rivelata, sarebbe valsa a farlo ricomparire. “… Non è affatto vero che Sirio sia vicino alle Pleiadi. E’ un errore elefantesco”.
“Euripide non era tenuto ad essere un astronomo” ribatté sommessa la figlia.
“Non sono d’accordo. L’errore poteva essere evitato dal traduttore. O mi direte che manco d’immaginazione?”
Poiché il Prologo procedeva lentissimo su un terreno verbale prevedibile, la cavea brulicava di bisbigli, di piccoli rumori di ambientamento, di ventagli sbattuti contro il petto. Per tutti i sessantaquattro gironi, tra aggiunti e riattati, pareva che gli spettatori non riuscissero degnamente a concentrarsi, che trovassero spinosi i sedili, più umida l’afa e, nell’insieme, più riposante  osservare la scriminatura del vicino all’altezza delle proprie ginocchia che ciò che succedeva sulla scena. Un po’ di responsabilità era da imputarsi allo stesso regista che aveva estrosamente abolito l’intervallo e graduato i riflettori con la “tecnica delle quarantore” accedendo al completo il parco-lampade al Prologo e scurendo via via col procedere delle situazioni. L’azione scenica e la carica  emotiva dovevano “farsi a vicenda” nello spirito dell’estetica aristotelica.

***

Non c’era dunque da meravigliarsi se ci fosse più luce nell’emiciclo che sulle chiome di Agamennone, e la tensione per il dramma  dell’Atride, che declamava di voler salvare la figlia a costo di lasciar invendicata l’onta del fratello tralucesse unicamente sulle facce dei capobarca cui era difficile intendere come i Danai avessero potuto radunare una flotta intera a ridosso degli scopeti di Lido di Castro, dove essi tiravano sui paranchi sì e no un paio di modeste tartanelle.
“Ahimè!” gemeva Agamennone, sempre immobile sulla soglia della tenda. “Ahimè. Io ero uscito di senno e son piombato nella sventura. Ma và, affretta il tuo passo, e non cedere alla debolezza dell’età”.
Il Messo aveva sporto il piede mancino in direzione di Terracina, che nell’ideale topografia corrispondeva ad Argo, aveva sbilanciato il corpo smilzo sull’anca come chi stia per prendere la rincorsa, ma intanto non si muoveva. “Mi affretto, o signore.”
“Giungendo a un bivio, guàrdati attorno badando che un carro non ti sorpassi senza che tu te ne accorga recando su rapide ruote la mia figliola alle navi dei Danai”.
“Lo farò, o Signore.”
“Non sederti presso le fonti nei boschi, e non lasciarti prendere dal sonno”.
“Non dir tal cosa!”
“Custodisci il suggello che porti impresso su questa tavoletta. Và! Ecco l’alba che precede l’aurora….”
“Vado, o signore.”
Un tremito nelle membra del Messo c’era stato, con muggiti di  soddisfazione nelle gradinate: sulla Scaena, priva di soluzione di continuità fra Lido di Castro e Lido di Aulide, si era diffuso un aspro pulviscolo di candelotto fumogeno. Pulviscolo che smentiva l’aurora annunziata da Agamennone, e che comunque significava trapasso di azione; nelle cavea, puntualmente, uno dei riflettori aveva esaurito il suo compito con un distinto clic nell’apparato elettrico nascosto in mezzo ai pioppi.

***

“Belli ma scomodi questi anfiteatri” sospirò la consorte del generale sentendo le tenere carni spiaccicarsi fino all’osso. Il vecchio militare approfittò della pausa del coro per ripulire con la pezzuola le lenti del binocolo e affidarsi al piacere di una perlustrazione fuori programma. L’impressione che ne traeva non era negativa. Il presidente dell’Azienda di Soggiorno aveva assicurato il pienone e non a torto appariva euforico; affaticato ma euforico. Fermo, per riprender fiato, a un’estremità della cavea, si grattava la barbetta e subito si rimetteva in giro con raddoppiato dinamismo per accogliere, ragguagliare, appianare. Nell’incrociare lo sguardo del Comandante del Distretto si alzò sulle punte e arrotondò gli occhi in un’intensa espressione interrogativa.
“Eh no, non mi pare che c siano … “ ruminava il vecchio allentando la vite del binocolo.
“Che dici?” gli diede di gomito la moglie.
“Hanno disertato sia l’Onorevole che il Questore, a quanto vedo”.
“Non ci sono?”
“Ssst!” fece la figlia richiamata dall’interruzione di Clitennestra.
L’attrice incedeva sotto la violenza di un riflettore che quasi la faceva brancolare. L’effetto si ripercosse con un moto ondoso sul pubblico e si stabilì quel silenzio verticale che segue o precede una folata di libeccio.
“Sono uscita dalla tenda” annunciava Clitennestra, “per cercare il mio sposo che da molto tempo è assente. La mia soave figliola, tutta in lacrime, manda molti e vari gemiti avendo udito che il padre medita la sua morte. Ecco che Agamennone si avvicina… io lo convincerò di empietà verso i suoi stessi figli”.
Alto e grosso qual era, Agamennone si stava staccando dalla tenda dondolando un poco sulle gambe col suo atroce dilemma verso la moglie, ma senza varcare il suo alone luminoso. Uno speciale riflettore dispensava per lui plumbei riflessi lunari frattanto che attaccava il pezzo della discolpa.
Clitennestra, che gli voltava le spalle, drizzò il capo e disse con bel disprezzo: “Eccelse, sì, le tue parole, ma le tue azioni non so come convenga chiamarle… Vieni fuori, o figliola! Tu sai ciò che tuo padre sta per fare. Porta, avvolto nel peplo, il tuo fratellino Oreste…” Un applauso dapprima a scrosci sporadici, poi a castagnola accompagnò l’entrata della bionda Ifigenia col piccolo Oreste. Il bambino, un brunetto ricciuto, era così delicato nei passi, così tristemente compreso della parte, da suscitare un infrenabile brusìo fra le spettatrici: “Carino da morire!” si estasiò qualcuno alle spalle del generale.
“Si, ma che roba! Un figlio di quell’età mandarlo a recitare in una tragedia greca. Potrebbe rimanerne scioccato.”
Agamennone implorava a capo chino: “Figlia, perché piangi e non mi guardi più con dolcezza? Perché avanzi con gli occhi spenti  e ti copri il viso col peplo?”
Una voce partì dalla cavea: “Assassinooo!”
Dalle prime file uno spettatore strillò di rimbalzo: “Silenzio, ignoranti!” e Agamennone potè proseguire: “Io non sono schiavo di Menelao, né mi sono arreso al suo volere; ma l’Ellade mi costringe a sacrificarti: occorre che L’Ellade per quanto sta in te, o figlia, e in me, sia libera; e che gli Elleni non siano soggetti ai barbari e vedano da quelli rapite le loro spose…”
Questa volta, un po’ per l’esaltato accento patriottico, un po’ per l’accenno al rapimento delle spose e l’energia disperata che vi aveva infuso, gli applausi scrosciarono per il re degli Achei. Dopotutto era un padre disgraziatissimo. Lì per lì neanche le lacrime di Ifigenia e Clitennestra poterono smorzare la cupa simpatia per l’Atride.

***

Nella cavea l’ultimo riflettore si spegneva sul distico della madre.
Le gradinate ripiombarono nel buio e sulla Scaena si ripeté la fumata del candelotto per dar agio alle fanciulle di Calcide di disporsi nell’Orchestra. Anche qui il regista aveva dato fondo alla sua vocazione. Le ragazze sembravano selezionate a un concorso di bellezza: tutte di eguale  statura e di elastica cadenza espressiva  intanto che cantavano:
    Eccooo la vincitriceee…
    Il padree ti attendeee…
Il generale che non aveva perduto tempo nel contarle e classificarle, comunicò ai familiari: “Ottantadue!” e adesso che le fanciulle sgattaiolavano dai ruderi al solo chiarore di qualche lumino nell’erba, borbottò: “A momenti ci vengono addosso”.
“Una lampadina in piena regola non avrebbe guastato” bisbigliò la moglie. “Che bisogno c’è di tenere l’animo sospeso se è stato abolito l’intervallo?”
“Ssst! fa atmosfera, mammà!”
Doveva essere quello infatti il colpo maestro della regìa: profusa di blu cobalto, apparve d’un tratto Ifigenia vicino alla tenda del padre, preceduta come una fantasma urlante da Clitennestra. La fanciulla sembrava eccitarsi gradevolmente di ciò che pocanzi la spaventava; sembrava non solo aver vinto l’idea della morte, ma che le andasse incontro con ansia e levità: “Non voglio che tu pianga, o madre! E voi, giovinette, innalzate un peana ad Artemide figlia di Zeus, sul mio destino, e i Danai l’ascoltino in religioso silenzio. Fate scorta a me, vincitrice d’ilio e dei Frigi. Recate corone… O pelasgica mia terra, o mia patria, Micene!...”
“Stupendo!” rabbrividì d’angoscia la figlia del comandante mentre il pubblico gridava: “Una cannonata!” e Ifigenia, ferma  nel suo “fatale andare”, com’era scritto nel sunto del libretto, attendeva la fine degli applausi.
“Come si chiama l’attrice?” s’informò il vecchio militare con fermezza di ciglio. “Zegni, Anna Zegni, una sconosciuta”.
“Ne ha di temperamento, quella ragazza!”
Il pubblico non accennava a placarsi e una voce fuori campo, autorevole e impaziente, si levò: “Andiamo, non è finito, signori!”, così che il coro poté ricominciare a frasi alterne per mezzo di ottantadue bocche: “Ecco la vincitrice d’Ilio e dei Frigi che muove verso l’altare dove le cingeranno il capo di corone di fiori…”
Sul proscenio illuminato di greve luce d’esilio le protagoniste pronunciavano le battute estreme del V episodio: “C’è qualcosa che possa io fare in Argo per darti piacere?” domandava la madre.
“Non odiare mio padre, il tuo sposo!”
“Verrò io con te” incalzava Clitennestra.
“Tu no, madre!”
A quel grido impetuoso, quasi non recitato, quasi espresso per la prima volta da labbra umane, sulla scena si era fatto limpido giorno, in una sorta di “recherche” che doveva significare i ricordi della giovinezza e le primavere perdute. Una velocissima  successione di luci, poi di nuovo il buio assoluto sul Coro e sulla cavea e quindi dal folto degli scopeti, nell’attimo in cui Ifigenia avrebbe dovuto essere immolata, un crepitìo di fuochi artificiali che inondò il cielo cogliendo tutti di sorpresa e strappando al genero del comandante un irrecuperabile: “Ammazzalo, e che è?!...”

Era vero, testo alla mano, che Ifigenia in extremis si salvava e al suo posto veniva sacrificata una cerva per volontà della dea; vero che un’indiscutibile frattura si apriva nell’opera a cagione di quell’happy-end quando lo spettatore, ormai col pianto in gola, non esigeva che l’atto puro della morte e che se, perciò, salto di quaglia o di cerva doveva esserci nell’azione, tanto valeva mancarlo; ma il regista era andato ogni confine libertario introducendo i fuochi della “Premiata Ditta Capozzi”, anche perché i fuochi generavano altri inconvenienti, nonostante gli applausi dalle gradinate. Come quando un cane uggiuola in aperta campagna e stimola a catena i canili della pianura e delle colline4, nell’ampio comprensorio del Teatro Romano s’intrecciarono voci di animali randagi, strida di civette nei ligustri, clacson ingigantiti sulla strada consolare, e da un impensato transistor, che poteva essere fuori o dentro il recinto, un motivo dilaniato dalle scariche:
…o bella ciao, o bella ciao
O bella ciao ciao ciao…
Invano il Messo raccontava festante a Clitennestra come si fosse svolto il prodigio; invano Agamennone rampava per un viottolo incontro alla moglie per versarle sul seno lacrime di giubilo: la tragedia era virtualmente finita agli spari; silenziose faville ricadevano sugli scoperti.
“O donna” diceva Agamennone, “Addio! Solo dopo un lungo lasso di tempo io ti rivedrò…”
Buon viaggio, maestà!” arrivò dall’ultimo girone, senza rammarico di alcuno, intanto che il transistor gagliardamente rammemorava:
                …una mattina mi son svegliato
                O bella ciao, o bella ciao ciao ciao
                Una mattina – mi son svegliato
                E ho trovato l’invasor…
“Sta’ a vedere che è proprio il foglio del Presidente dell’Azienda di Soggiorno che si diverte con quell’ordigno!” disse a voce alta il generale. “Che frana!”
Poi soggiunse all’orecchio del genero che era consigliabile prevenire il deflusso, sottrarsi in tempo al polverone dello spiazzo e guadagnare in  incognita l’uscita.

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