SCUOLA SCIENTIFICA TESLIANA DI NATUROPATIA OLISTICA

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ALBERTO ARBASINO

 

La nonna nel baule

 

EDOARDO

Bastano una cinquantina di pesete a comprare i più splendidi posti in prima fila, con scialle a frange sul parapetto, a una corrida di Madrid, completa di sei tori bene uccisi, e di Ava Gardner a portata di mano. Bellissima, ancora veramente bellissima, in tutta l’arena la cosa più desiderabile da guardare – anche perché la corrida, come le partite di foot-ball, è uno spettacolo troppo, troppo lungo: mezz’ora basterebbe, ma di più no; per quanto bene riesca, passata una mezz’ora comincia a essere stancante. Lei era vestita di nero, con un foulard di velo granata al collo, molto bruna: ecco – quando si sente dire “grande temperamento” o “vitalità irresistibile” – proprio questa cosa, basta vedere come lei muove le spalle, e la testa, continuamente, irrequietissima, verso chi le stava insieme, buttando indietro i capelli. E questi che le stavano insieme, non è solo una fastidiosa retorica, macché, averli trovati realmente all’altezza del migliore Hemingway. Tutti dentro la “grande tradizione”. Erano una donna americana, in tailleur di lino, quasi bianco, e capelli cortissimi dello stesso colore; segnata in faccia; e due uomini, di tipo franco-americano, uno quasi del tutto spento, e uno assai piacevole, eccezionalmente molle.

Una delle orecchie dei tori ammazzati l’hanno offerta a loro, come credo che sia necessario fare, sullo scialle a frange; e abbiamo ammirato tutti l’eleganza straordinaria dell’ultimo torero del pomeriggio, il più importante, direi anche il più bravo (ma io sono dei pochissimi che ammettono sinceramente di non intendersene tantissimo, di non conoscere tutti i nomi e tutte le figure e i misteri della corrida), l’eleganza di questo messicano che si chiamava Alfredo Leal, nel risolvere a suo vantaggio una situazione di qualche imbarazzo; una cornata gli aveva rotto il didietro dei calzoni attillati, e dovendo impegnare una mano a ricomporre questi brandelli di raso carnecino, e tener coperta la coscia bruna che affiorava dallo strappo, ha eseguito tutta la scena dell’uccisione col solo braccio destro, perfettamente.

 

ELSA

….. del resto poco ho veduto della città in quei giorni, restando per quasi due settimane a camminare attraverso quelle vie poveramente affollate di uomini senza giacca e donne col trucco 1938, e i negozi di roba di cuoio buona come pressi, ma scadente come lavorazione, certi borsellini proprio da paese, e con le vetrine spente  quando fa buio per risparmiare sull’energia, e i padiglioni dei parchi dove ogni sera si fa della mediocre musica – c’è lì vicino, dietro il Prado, dove c’è quel gran bacino con le barchette, un locale all’aperto abbastanza caro, e lì fanno dei buoni numeri – alla piazza maggiore che ha un’aria quasi piacentina, col suo monumento equestre di aspetto glorioso, e le boîte nei seminterrati, e tutte quelle corazze bene in fila nella armeria del Palazzo Reale, che sarà grande, ma troppo elegante non è: giravo come una sonnambula, per la stanchezza soprattutto, che rientrava in sé unicamente al Prado. E’ il più bel museo che abbia mai visto, non si discute. Qui lo shock che mi aspettavo a tu per tu col Greco, è arrivato, piuttosto, e fortissimo, davanti ai Goya. Come fanno a “riscoprire” o a “rivalutare”, adesso, quelle sue cose degli ultimi anni, quando è lì chiaro che sono state sempre le sue più alte, impressionanti, e si presentano lì subito, immediatamente, a chi non ha freddo agli occhi? E tanto più, gli altri quadri che in Spagna possono colpire altrettanto – il “seppellimento del Conte d’Orgaz”, i Van der Weyden, i Bosh – sono piuttosto lontani, li abbiamo visti a Toledo, all’Escuriale, a Valencia.

 

EDOARDO

All’Escuriale ci siamo dovuti tornare due volte: la prima siamo capitati male, era il giorno di San Lorenzo, uno dei due soli giorni all’anno (l’altro mi pare Sant’Agostino) che c’è tutto chiuso perché devono fare delle cerimonie. Abbiamo visto tutto questo corteo che passava solenne girando interno dentro la grande chiesa, e in testa c’era, antipatico devo dire, quel generale Moscardo che comandava l’Alcàzar assediato di Toledo, durante l’ultima guerra civile: ora, ci eravamo stati, a vedere là, un paio di giorni prima; e come visita è commoventissima. Giù in questi scantinati profondi, fra enormi mura, col pavimento di terra (dove gli assediati hanno passato settimane al buio), e conservati come un museo pietoso, fanno vedere adesso, come reliquie, e commuovono, i loro poveri piatti, il ciclostile, gli oggetti di cui si servivano, la motocicletta usata come motore di dinamo, l’apparecchio per macinare la farina.

Finché si arriva alla stanza del comandante, massacrata dalle cannonate, e il testo della conversazione al telefono con suo figlio,preso come ostaggio dai repubblicani, si legge su una carta: minacciano il comandante, che se non si arrenderanno tutti, gli fucileranno il figlio; questo figlio, portato al telefono, incoraggia il padre a resistere, senza curarsi di lui; e infatti sis ente subito dopo la scarica dell’esecuzione – e tutto perché passato qualche anno – questo generale fiero e pomposo della fortuna politica costruita sul glorioso episodio del figlio morto (e come gli piaccia la sua condizione, come se la deve assaporare minuto per minuto, lo si vede chiaro dall’atteggiamento, sembra Mussolini sulla trebbiatrice), va da camminando per l’Escuriale, e guida un corteggio di preti e di generalissimi, tronfio come un tacchino natalizio, coperto di nastri e medaglie, farcito di prugne. E tutte le porte chiuse, perché dovevano passare loro, con questa processione. Ci siamo tornati il giorno dopo, scendendo fra tutti i marmi delle cripte, e lei, che aveva appena preso, fuori, un gelato degli stessi colori giallino e rosa della rotonda dove sono sepolti i principi bambini, per poco non è stata male.

 

ELSA

Lourdes non le è piaciuta gran che: belli i dintorni come natura, dice, ma in quel gusto lì allora sono meglio, per così poco, St. Moritz e Pontresina, a non più di due ore di macchina da casa sua a Como; e la città, con tutte le baracche che vendono medagliette blu sempre uguali e bottiglie a forma di Madonna, è francamente orribile, piena di detestabile gente; la chiesa-santuario dove si va è in una brutta posizione, e cosa c’è da vedere, poi: niente. Non le è piaciuta. E per di più si mangia malissimo, spendendo troppo, siamo capitati male; subito ripartiti per Tolosa.

Non è gran che bella, come città, neanche lei: questa piazza centrale, illuminata da fanali gialli, qualche palazzo, viali, gente brutta. Siamo andati a dormire preso. In questo albergo Capoul, dove si aprono i balconi sul cortile interno, coperto da un tetto vetrato, con una vegetazione di rampicanti filamentosi giallastri – ci si risveglia come nell’acquario di Napoli – ci alziamo, si parte subito, facciamo un giro a Carcassonne, questo castello crollante con tante torri, però è più bello fuori che dentro, sfioriamo Biarritz, ma verremo qui forse più tardi, se ci si riesce, finalmente arriviamo in serata a San Sebastiano.

 

EDOARDO

Non la si direbbe dopo tutto una donna malvagia, e forse non era avvelenato il whisky che ci ha mandato a Natale, è stato un pregiudizio nostro. Arida come la cenere, certo, basta vedere come si è co,portata col nonno e con nostro padre, e ammorbidita in vecchiaia neanche a morire – il formaggio grattato neanche adesso si porta in tavola – ma adesso che quei due sono al Monumentale da tanto, gli anni per tutti passano, e anche lei (Como non offre poi attrattive e distrazioni da far gola), dove esserci arrivata, certi pensieri a farseli venire, certe conclusioni bisogna pur cominciare a tirarle, vorrei vedere anche questo, fuori discussione che con lei si fa sempre i carini, i simpatici, per sistema; ma se anche lei, proprio lei, non si fosse sentita in umore di riavvicinamento, così subito non si lasciava invitare certo.

 

ELSA

E’ un peccato che parli poco, piuttosto, una donna della sua età, che poi è sempre andata in  giro piuttosto tanto, fatta vita di società, in quel suo modo, giuocato, mangiato bene, con tanto gente, vissuto anche sola, insomma abituata a stare: è strano; ma intanto non si sa mai che cosa  sta pensando.

 

EDOARDO

Chissà come ci giudica. Vorrei saperlo, proprio questo. A San Sebastiano, qui ci si è fermati più del previsto. C’era per aria una festa del paese, bene, devo dire: una di quelle cose solite in Spagna, con le orchestrine in strada, una su ogni angolo, e la gente che balla che riempie anche i marciapiedi, non si riesce più a passare; tutti alle finestre; soliti festoni di lampioncini veneziani e napoletani; solite frasche alle pareti nelle osterie dove si entra a bere: solite baracche tenute da enormi donne, che vendono il churro, queste frittellone buonissime, leggere. Questa qui era una festa speciale del quartiere vecchio, quello del porto: per commemorare un gesto eroico tipo Balilla, con rivolta credo contro i Francesi. E lei che beve, mangia, quasi balla, come noi, ma indifferente, che donna che no si riesce a capire. Si sta insieme tutto il giorno, dunque, e quando si parla è per dire veramente quelle quattro sciocchezze, da incontro di viaggio. Mai si discorre di cose della famiglia (dovrebbero interessare lei come noi). Ma che specie di nonna è? Le cose che contano, mai.

 

ELSA

Certo, lei, questa sua vita da egoista, se la deve essere organizzata  in partenza, ben sapendolo, decisa a non preoccuparsi di nessuno e lasciarci crepare magari: lo si è visto cento volte, anche in occasioni gravi, quando la mamma ha dovuto vendere in fretta la casa di via Lanzone, per niente, e ci sarebbe voluto tanto poco a evitarlo; quando il bar di Edoardo è andato male: eppure io continuo a credere che un locale di tipo francese, mettiamo boîte elegantina con un pianista, oppure scantinato maldipinto, con vecchie poltrone da cinema di ferro nero scrostato e peluche rossa, lisa, un po’ schifosa, un po’ di quadri strani, i rigurgiti di St. Germain-des-Prés (che vanno sempre bene), e la cuoca bravissima che prepara solo quelle due o tre cose, ma buonissime, speziate, drogate, con verdura, a colori, servite in piatti tutti diversi uno dall’altro, vecchia Cardiff insieme con vecchia Lodi, non troppo lontano dalla piazza del Duomo, credo che come idea non fosse da buttar via. Certo, saperlo bene, un bel posto così. Questo albergo di Burgos, dove siamo stati, è una meraviglia di vecchi legni e vecchie lenzuola, tende ricamate che si arrotolano, e col capriccio di étamine (sembra il titolo di un valzerino), ferri battuti e ottoni, piante in vaso, parquet sollevati ma lucidi, cigolano tutti: dev’essere l’albergo che diceva lui, la padrona vecchia tipo ex-concertista è certamente la stessa, con le meravigliose pettinature; e certe brocche, da portar l’acqua con i fioroni a rilievo, indimenticabile, da venir voglia di portarle via subito; anche la cattedrale, grossa, piena di tante belle cose, decoratissima. La città, stupida. Noi si va fuori, si gira, le si fanno vedere dunque tutte queste cose qui, ma tutte le volte che si parla di questo negozio d’antiquariato da metter su, o che non lo vede, o che cambia discorso. Questi soldi, non ce li vuoi dare, non ce li dà, è inutile star lì.

 

EDOARDO

Non ce li dà. Anche quando è andata male con lo spettacolo, anche quella volta perché sono venuti a mancare i soldi: perché, se invece di sciogliere, si riusciva a tirare ancora per un mese, tanto da arrivare fino a Milano, là era a posto tutto. Qui, non è solo questione di vederlo o no, l’affare è proprio un partito preso, volere imputarsi, e non lasciare andare a nessun costo. Non voler. Perché se lei aveva l’intenzione di dare una mano, c’erano mille modi. Ma, egoista com’è: soldi niente.

 

ELSA

Più penso a lui, come mi rendo conto che io lo sto facendo su tre piani, questo viaggio: e come faccio a non pensarci, mi accorgo che non sto facendo che quello, devo sembrare una sonnambula veramente, certe volte che questa nonna o questo Edoardo mi parlano, e io magari non li sento, e sto lì; e come ci penso, a lui e a questo viaggio, dovevamo proprio farlo insieme, dovevamo venirci noi due soli, invece di essere ridotti io e Edoardo a far opera di captatio benevolentiae con questa qui, mentre a lei non interessa niente di noi, è tanto chiaro, siamo come una agenzia per lei, ma almeno se non si riesce a stabilire una comunicazione di simpatia fra lei e noi, poi sarebbe ora che provvedesse a fare questo testamento, questa maledetta, alla sua età che chissà quanti sono, e invece sono sicura che non ci pensa, almeno, dicevo bene, un viaggio stancante, tappe belle lunghe, di centinaia di chilometri, al sole, star su fino a tardi, andare a mangiare nei posti e alle ore più sregolate, farla bere, ma tanto lei beve, camminare tanto, almeno dovrebbe servire un po’ a stancare se non altro questa forte fibra – mai avuto un raffreddore, alla sua età – con lui, con lui, dovevo venirci, noi due soli, da due anni se ne parlava, da quando lui ci era venuto l’altra volta e si era preso la navaja, e aveva passato quella meravigliosa Pasqua a Siviglia, noi stavolta fin là non si riesce a arrivare e così non posso vederla, fra l’altro. Vorrei essere a Panarea.

 

EDOARDO

Mia sorella è una stupida: potrebbe sforzarsi di capire, le situazioni e fare un po’ di più.

 

ELSA

Il piano numero uno è quello che conta meno, quello con loro due, ma ci si è dentro, maledizione, una cosa deve fare, sta lì, è questo piano della realtà del viaggio che si sta facendo, sei lì e non puoi muoverti, devi fare quasi sempre quello che fanno gli altri, seguire, non puoi dare un taglio e lasciarli andare, continuamente, qualche volta sì, o qualche volta sei lì con loro, ma in realtà sei altrove – come quella sera che ci hanno fatto sentir cantare il flamenco nella stanza con tutti i  manifesti delle corride, e si beveva – sul piano di quello che mi raccontava lui, e delle cose che aveva visto, e in qualcuno degli stessi posti ci si passa adesso, e le stesse cose le vedo coi miei occhi, e passo nell’altro piano ancora (il terzo) immaginando, se fossimo qui negli stessi posti noi due soli insieme, e in quest’altro piano (sempre il terzo), ci sono ma non sono più da sola né con mio fratello né con la nonna, solo con lui, ma non mi rimane altro che voltarmi verso un Roberto che non c’è, e immaginare cosa fa e cosa dice, quando si è insieme in un posto.

 

EDOARDO

Devo essere proprio io quello che bada, a tutto, col pretesto che ho venticinque anni più di lei, io state dietro alla nonna. Elsa è così, si distrae, va. Segovia è una bella città, lei si arrampica su questo acquedotto altissimo, che c’è, romano, proprio dove si entra; va su, in alto, lei, parla con della gente, la nonna non aveva voglia di andar su fin là anche lei, bisogna salire di fianco, per la collina. Poi, in città è stato lo stesso, la si attraversa, si arriva alla cattedrale, che è più tarda delle altre come linea, tutta piena, e dopo si arriva all’Alcázar, su uno sperone tanto alto che Orson Welles l’ha messo dentro il film del Signor Arkadin: da un lato solo si attacca alla piazza e alla città; da tutte le altre parti la torre è a picco su questo strapiombo roccioso, scavato dal torrentaccio che si vede là in fondo, in ombra, bianco di schiuma, con le lavandaie intorno, tanto in basso che non si sentono neanche le loro voci, e al di là di loro non ci sono più rocce, solo colline bruciate e gialle, abbastanza rotonde, del colore del cielo. E’ una caserma, e bisogna chiedere il permesso per entrare e andar su; mentre si parla a una guardia che non capisce, lei, Elsa, non aspetta, e parte sulla torre; dopo che siamo andati là su anche noi, trecento scalini, la troviamo che parla a uno di questi soldati bensì che le spiega le cose, le indica le cupole, la guarda di dietro con nervosa dolcezza.

 

ELSA

Alle porte di Ávila è stata la stessa cosa. Le mura, e le torri, di pietra, a distanza regolare, e la campagna secca, il gruppo d’alberi nel cortile di questa cascina che sembra il conventino di Santa Teresa (l’interno della città è qualche stradetta sassosa, torri e palazzetti modesti, che fanno ombra, la gente annoiata in piazza che guarda arrivare la corriera, pessime paste nei caffè), e gli abbeveratoi dove si fermano le vacche e le pecore, camminando sulla carreggiata piena di polvere; oh, Roberto, la sua voce, che mi parlava di queste mura, questo silenzio, Santa Teresa; essere in questo momento a Panarea, nella casa della Vedova Dilirio, senz’acqua e senza luce, insieme noi due, con le stanze bianche e i gradini freddi e il vimini; lui a quest’ora starà facendo il bagno; con i pomodori e l’olio, e la bistecca sui fornelli a legna; andrà fuori con la barca Provvidenza, fanno la pesca sottomarina, fra gli scogli; saremmo andati insieme all’isola di Arturo; cercato le cernie; poi ci dev’essere della gente simpatica; mi sembra di sentirlo parlare, di questa Santa Teresa, di queste mura di pietra conservate benissimo. Entriamo a vedere nella cattedrale (avevamo lasciato la macchina proprio lì sotto, fuori una delle porte), e l’abside di questa cattedrale fa parte delle mura, costruita come una fortezza. Ma fuori, cantavano, passava un gruppo di ragazzacci in divisa, marciavano, malvestiti, piccoli, in disordine, con  tutti questi segni da balilla addosso; anche il latte che si beve è cattivo, nei bar della piazza. Non hanno neanche i gelati di crema.

E’ stata la stessa cosa, come fra quegli ornamenti fiammanti fracassati, al San Juan de los Reyes a Toledo, nelle chiese dei mori e degli ebrei – come a Madrid sulla tomba del Goya – voltarsi, e cercarlo, e pensare che con lui tutto sarebbe diverso: il viaggio, meraviglioso. Staremmo insieme. Staremmo vicini. Si scende, fuori da questo convento, nel confessionale dove Santa Teresa parlava a San Giovanni, e fa caldo. La sua voce. Ah, perché non sono anch’io coi pescatori, come non sono riuscita a andare a Panarea quest’anno? Noi due soli.

EDOARDO

Ce ne andiamo via da Madrid, con un sole secco, e la polvere che ci brucia; gli alberi di Aranjuez sembrano Acquapendente dopo aver fatto la Cassia da Siena, o arrivare in agosto alla Certosa di Pavia. Sono belli anche i giardini, dove c’è l’acqua, e anche se eravamo fuori orario, è venuto un custode, ci ha fatto vedere l’interno del palazzo, e un salotto d’angolo tutto di porcellana, con un soffitto su fondo bianco, e foglie e rami e fiori e uccelli e tutto. Ce n’è uno anche a Napoli.

Di qui a Valencia è una tirata sola, e sono quattrocento chilometri, lei non è giovane, e la strada non è troppo bella, hanno dato l’asfalto ma senza tirar via le buche. Si fa tutta questa tirata. E gli incontri sono ben pochi. Si va avanti per decine di chilometri senza vedere né una macchina né una casa, e nei paesetti non c’è negozio dove comprare qualche cosa da mangiare; neanche benzinai ci sono; si vedono queste grotte scavate nella collina, dove abitano, tutto quello che si può trovare sono delle pagnotte e pancetta durissima; lì vicino c’è sempre una piccola arena per corride, magari di terra, anche di pochi posti. In uno di questi paesi, di una miseria da far paura, ci vogliono per forza far entrare nella chiesa, che è una stanzetta, una cosa di Abissinia, ma loro si aspettano che noi facciamo le meraviglie, davanti alle Madonne che sono molto vestite e hanno ornamenti che luccicano è un fatto che a loro deve sembrare un lusso straordinario.

A Valencia si dorme di giorno, il porto è abbastanza lontano dal centro, e la spiaggia addirittura lontanissima, saranno più di dieci chilometri; si voleva fare il bagno, ma c’è vento. Così si dorme, quando ci alziamo è troppo tardi per andare nella cattedrale a vedere un Cristo che c’è, fatto di pelle umana, e che se si schiaccia vien fuori il sangue, si esce quando fa notte, andiamo a finire di là dal fiume, attraverso un ponte fantasma con nicchie di Santi illuminati al neon, che sembra Praga, e si finisce in un posto da ballo all’aperto, alto alto su certi gradini, con i porticati a colori: un Firbank da Rinascente.

ELSA

Anche lei è venuta, e non sembra certo stanca, poi; discute le qualità dei cognac che si chiamano Carlos, chiacchiera abbastanza stasera, anche se non balla. Si è tolta le scarpe sotto il tavolo, e ho visto adesso che abbassa una mano, si sfiora il piede, nascosta dalla tovaglia, la porta al naso, adesso fa con l’altra mano, se la passa adagio sotto le ascelle - ma si è accorta che la notavo - allora quest’altra mano viaggia, verso i capelli vicino al bicchiere, per aria, dovrà pure avvicinarsela al naso, ecco infatti, ma io non posso fare a meno di fissarla ancora come si fa, eccola, è per confondermi adesso che si mette un dito, decisa nella narice?

EDOARDO

E dopo Tarragona (il bagno, il chiostro e le mura ciclopiche, il liquore dei frati…) si ricade nella solita Barcellona; ma stavolta il programma è diverso. Facciamo il giro dei Gaudì: ma tutte le volte che si viene a parlare, e nel quartiere gotico capita a ogni passo, non dico di eredità o di testamento, ma almeno di questo negozio di antiquario, che verrebbe fuori benissimo, con tutta la gente che si conosce, e poi già con un po’ di pratica, meglio ancora a Roma, il posto ci sarebbe, ma anche lì dopo un certo tempo bisogna pur confermare, dare la caparra, lei niente, non dine né sì né no, cambia discorso, non si vuole impegnare, piuttosto che niente si interessa a Gaudì.

ELSA

Dunque, dopo una visita lunghissima alla Sagrada Familia, si fa a piedi verso il tramonto tutto il giro del parco Guell, con queste casette alla Tom & Jerry, la terrazza con sponde che sembrano serpentoni a scaglie di mosaico, e sotto, quel vestibolo basso aperto, con le colonne storte e pieno d’orribili odori. Si ripiglia la macchina, passando lungo il Paseo de Gracia per vedere quelle altre case strane di forma – sono larghe, belle, chiare, queste vie, piene di alberi e di luce – si arriva alla funicolare, saliamo sul Tibidabo, ma non si era d’umore per tiri a segno o labirinti, del resto c’era troppo vento là in alto, e non erano abbastanza coperti: si scende, e andiamo a finire in un combattimento di galli. Stupido. Siamo usciti che non era ancora buio del tutto, in fondo avevamo già lasciato l’albergo, troppo stanchi non ci si sentiva, credo neanche lei, e per guadagnar tempo si è deciso così subito di partire: andare avanti il più possibile nella notte, avremmo dormito in Francia, nel primo posto dove ci capitava.

EDOARDO

Né mia sorella né io avremmo voluto mai che capitasse questo. E’ stata una cosa improvvisa. Non ce ne siamo neanche accorti. A neanche dieci chilometri dalla frontiera, non la sentiamo più (lei era da sola, con le sue borse, sul sedile di dietro), poteva essersi appisolata, ci si volta, e invece morta, lì secca, ma così improvvisamente, senza una ragione; uno di quei colpi, che capitano. Mai avremmo voluto così. Soprattutto, non ce lo aspettavamo. E ammetto che abbiamo un po’ perso la testa, sul momento. Era tardi, - ci si sentiva stanchissimi – e poi vicini alla frontiera, ancora da passare. Anch’io mi sono un po’ impressionato. Con questi spagnoli che non si riesce mai a farsi capire, sono tutte storie che le due lingue si assomigliano, con i catalani, poi, tanto peggio: a Barcellona non ho mai capito una  parola. Non ci vuol niente a fermarci, fare indagini, sospettare chissà cosa, trattenerci per gli accertamenti, farci perdere chissà quanto tempo, dover mandare a chiamare il console; star qui dei giorni; in questi paesi, chissà come le fanno complicate, le cose, per loro il tempo non conta; e poi, la spesa. Non che ci si sentisse colpevoli di niente; ma si è notato che il baule della macchina non lo fanno mai aprire; così vicini alla frontiera, oramai, tanto valeva passare in Francia, dove tutto è più semplice, presentarci così direttamente al primo console italiano che si trova sulla strada (il Primo Console? Ma è Buonaparte, dice adesso questa stupida che non vuol capire niente), spiegare che le è venuto un malore – che è la verità – ma in territorio francese. Piegata in due, c’è entrata benissimo nel baule.

ELSA

Arriviamo a Perpignan che è mattina presto. Al consolato non c’è nessuno. Non credo che l’abbiamo fatta affaticare troppo. E’ strano che sia successo in questo modo. Io non credo di aver niente da rimproverarmi. E’ andata, così.

EDOARDO

La cosa veramente spiacevole è che si ridiscende in piazza, e avevano rubato la macchina (lasciata lì bel chiusa) con tutti i bagagli e lei nel baule. Per fortuna al console non si era ancora parlato. Adesso bisogna pensare bene che cosa raccontargli. Ma se non si ritrova, o non ce la riportano indietro preso, le pratiche per la morte presunta e riscuotere l’eredità, ho paura che vadano avanti per degli anni. Telegrafiamo subito all’avvocato.

 

 

 

ALBERTO ARBASINO

Alberto Arbasino è nato a Voghera nel 1930 e, per molti anni, ha studiato le scienze naturali, politiche e letterarie alle università di Pavia, Milano, harvard, alla Sorbona, all’Aia e a Londra. Viaggiatore appassionato, ha percorso in lungo e in largo Europa e America. Da queste esperienze sononati numerosi racconti di viaggio. A proposito dei suoi romanzi, lo scrittore dice: “Quel che mi interessa, oltre a raccontare la storia, è tutto l’ambiente che c’è dietro…. e il probema tecnico che c’è sotto, nuovo ogni volta. Ma essenzialmente importerà di rendere evidente una certa società, un determinato mondo morale, per mezzo di effetti eminentemente linguistici”. All’attività di narratore, Arbasino ha affiancato quella di giornalista, collaborando a numerosi giornali e riviste.: Paragone, L’Illustrazione Italian, Il Mondo, Il Giorno, L’Espresso, Il Verri, il Corriere della Sera, Quindici. Si è anche occupato di cinema, di opera lirica, di teatro di prosa, di radio, televisione e canzoni.

Risiede a Roma e a Milano.

OPERE PRINCIPALI: Le piccole vacanze, Einaudi 1957 – L’Anonimo Lombardo, Feltrinelli 1959 – Parigi o cara, Feltrinelli 1961 – Fratelli d’Italia, Feltrinelli 1962 – Grazie per le magnifiche rose, Feltrinelli 1965 – Off-Off, Feltrinelli 1968.n

 

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