LA LUNA DI IACY
I CONFLITTI CON LA NATURA
IL CONFLITTO. Ogni fiaba è il ricordo di una fiaba.
Molti anni fa, quando ancora – piccolissimo – abitavo in Brasile e mia madre doveva faticare per ore e ore prima di riuscire a farmi mangiare un bocconcino microscopico di verdura o di mandioca, una sera, all’improvviso, arrivò a casa, l’amico dell’amico, di un nostro lontanissmo parente, che viveva, ormai da anni, nel mezzo dell’immensa foresta equatoriale. La mitica foresta dei nostri sogni. Mia madre, costernata e sorpresa per il suo arrivo, riuscì in un lampo a dissimulare il proprio disagio e, con una manovra davvero furbesca, degna del migliore stratega, chiese all’ospite di accomodarsi direttamente in sala: mio padre sarebbe rientrato di lì a poco, come soleva fare ogni sera, sicché non gli rimaneva altro che aspettare tranquillamente seduto sul divano, magari davanti ad un televisore acceso, nuova di zecca. Nel frattempo, gli disse mia madre, con una punta inafferrabile d’imbarazzo, devo ancora dare da mangiare ai bambini.
Io e mio fratello, rapiti dagli abiti misteriosi del nuovo arrivato – due galosce completamente ricoperte di fango, sporche fino all’orlo, un mantello nero e un enorme cappello di cuoio, logoro e graffiato – la guardammo in silenzio, senza cercare di nasconderle la nostra sincera delusione: avevamo capito che, nonostante la presenza straordinaria di quell’essere enigmatico, venuto da chissà quale pianeta con quei baffi lunghi e scuri, avremmo dovuto continuare a mangiare – come se niente fosse! – carote, broccoli e altre verdure ugualmente disgustose ai nostri palati infantili, ben altrimenti felici al solo pensiero di una caramella, di una torta, di un budino alla vaniglia ricoperto di fragole e cioccolato.
Mi ricordo di aver inghiottito con amarezza il boccone che avevo in bocca.
Qualche minuto dopo, per la nostra gioia (e per la sorpresa di mia madre), il visitatore si alzò dal divano ed entrò in cucina, avvicinandosi con un largo sorriso alla tavola. Vedendosi circondato da occhietti tanto affabili quanto curiosi, si sedette subito accanto a noi e, prima che gli avessimo potuto fare una qualsiasi domanda (era dalla parte di Zorro o un nemico di Batman?), prese a raccontare una storia, una fiaba molto famosa dalle sue parti:
“Nella grande foresta, protetti dagli alberi e circondati dai fiumi, vivevano molti indios della tribù Tupinambà. Le loro capanne, costruite con il morbido fango delle rive e con le grandi foglie delle piante fluviali, creavano un labirinto circolare di case e piccoli altari, attorniati dal fumo perenne di un fuoco sempre rosso e giallo. In questo villaggio, viveva la bella Iacy, un’india dalla pelle dorata e dagli occhi trasparenti come il miele. La sua bellezza era impareggiabile. Un giorno, dopo aver raccolto un pò di radici e di verdure per cucinare, Iacy incontrò, vicino alla cascata, l’indomito e vigoroso Peri, il cacciatore più coraggioso dell’intera tribù. Era bello e forte: robusto come il tronco di un albero, veloce come le acque torbide di un fiume. Gli occhi di iacy guardarono Peri con la tenerezza di una dea. Gli occhi di Peri abbracciarono Iacy con la passione intramontabile di un guerriero. Da quell’istante, l’amore di Iacy fu l’amore di Peri. Si unirono davanti alle divinità tropicali e, da quel giorno, presero a fare tutte le attività insieme: insieme preparavano il cibo e le provviste; insieme andavano a pesca o a caccia; insieme commemoravano la nascita della Vita e la scomparsa del demone Morte; insieme sorridevano e vivevano in mezzo alla tribù. Erano felici. Purtroppo, però, non lo sarebbero stati per selpre.
Un giorno, all’alba, prima che il Sole avesse potuto salutare ancora una volta la Luna, Peri dovette partire, per andare a combattere contro i temibili avversari della riva opposta del fiume: i cannibali Tupinichins. Addolorato, ma conscio del proprio dovere, Peri guardò con tenerezza infinita la sua dolce Iacy, prima di andare via e, con il sorriso nostalgico di chi parte, osservò il corpo dell’amata ancora disteso sul pavimento di giunco, avvolto nel sonno protettivo delle divinità serali. Peri amava Iacy come il Sole poteva amare la Luna. Quando, al mattino, Iacy si fu risvegliata non potè trovare accanto a sé il volto fiero del guerriero. Da allora, si chiuse in un silenzio atemporale, geometrico. Da quel giorno, non chiuse più gli occhi. Non mangiò, non dormì più. Il suo amore era tale che ella si mise ad aspettare, giorno dopo giorno, notte dopo notte, il rientro dell’amato a casa. Di giorno, si sedeva, triste e silenziosa, sotto l’ombra di una palma gigantesca, lontana dai raggi solari. Di notte, per scacciare gli spiriti maligni – e le zanzare – si cospargeva il corpo con del delicato olio di cocco e aspettava, sempre triste e silenziosa, il ritorno di Peri, carezzata dall’abbraccio fresco e luminoso della Luna. E così, giorno dopo giorno, notte dopo notte, trascorsero le prime settimane.
Iacy, mossa da un amore fervido e imperituro, piangeva sommessamente sotto lo sguardo della Luna, diventando ogni dì più bianca, ogni dì più diafana. Le sue lacrime scorrevano trasparenti, sulle guance come molti fiumi in piena e si depositavano tristemente sulle labbra, prima di cadere, con il suono vitreo di una goccia, sul terreno circostante, trasformando il pezzo di terra che la circondava in una piccola pozzanghera di fango. E così, passarono molti giorni e molte notti. Le settimane divennero mesi. I mesi divennero anni. E la terra, trasformata in fango dal pianto inarrestabile di Iacy, cominciò a poco a poco a coprirle per intero il corpo – prima i piedi e le gambe; poi il torso e le braccia; e, infine, il collo bianco come avorio dopo tante notti trascorse in compagnia della Luna – finchè, dopo alcuni anni, non l’ebbe completamente inghiottita nelle sue viscere. E fu così che, dove prima si trovava seduta la bella india Iacy, si era formato un piccolo colle di fango”.
LA RISOLUZIONE DEL CONFLITTO. Stanco e un po’ rauco, l’ospite si fermò per un istante. Si aggiustò rumorosamente sulla sedia e, guardandoci diritto negli occhi, proseguì – ipnotico – il suo racconto: “Ma le divinità del Destino avevano già decretato la triste dine della nostra coppia. Difatti, quando il prode guerriero Peri, dopo molti anni di cattività, riuscì finalmente a scappare dalla prigione nemica e fece ritorno nel suo villaggio natio, non vi trovò più l’amata Iacy, ormai sepolta nel colle che ella stessa aveva prodotto con le sue lacrime. Vedendo quel pezzo di terra arido e solitario, Peri si mise a piangere, addolorato, e le sue lacrime, traboccanti d’amore come quelle versate un tempo dall’amata, penetrarono così in profondità il terreno circostante che raggiunsero immediatamente il corpo esangue della fanciulla, ormai trasformata in una radice. Appena toccata da quelle lacrime calde, spuntarono da quella stessa radice i germogli verdeggianti di una pianta: una pianta completamente bianca nella parte interna (come bianco era diventato il corpo di Iary, dopo le innumerevoli notti trascorse al chiaro di luna) e ricoperta, all’esterno, da una dura scorza dal colore marrone (come il fango che l’aveva avvolta ormai per sempre).
Nasceva così, tra i Tupinambàs, la pianta della mandioca, una radice buonissima da mangiare”. Affascinati da quella storia improbabile, da quella delicata fiaba indigena – un po’ triste, è vero, ma piena di un affetto casto quanto sconfinato – io e mio fratello passammo a mangiare non soltanto la mandioca, ma qualsiasi altro tipo di verdura o di radice, sempre in attesa che spuntasse, ancora una volta, come per incanto, un misterioso amico dell’amico di un nostro lontanissimo parente che ci potesse spiegare, con la voce suadente dei prestigiatori, le origini fiabesche, mitiche o leggendarie di tutte le piante del mondo. Il ricordo di quel racconto – e di quel misterioso narrare – mi accompagnano ancora oggi, trasformando il sapore della verdura più amara in una meravigliosa profusione di dolci attese.
Fiaba tra la memoria e la fantasia, scritta da Ricardo De Mambro Santos