Principio di rispettare quale Diritto Fondamentale dell'Uomo
Anno 2009_04 Novembre
Il 4 Novembre, in occasione della morte, alla veneranda età di 101 anni, del grande intellettuale, nonché fondatore della moderna Antropologia, il franco-belga, Claude Lévi Strauss, intrattenendosi sulla significatività della vita “vissuta” di questo moderno “esploratore” dei costumi e della spiritualità, in senso lato, delle popolazioni primitive da lui “visitate”, popolazioni primitive in merito alle cui valenze esistenziali ebbe, poi, a vivacemente polemizzare con un l’altro “campione” dell’intellettualità francese, JeanPaul Sartre, la LIDU stila una nota-comunicato.
Documento in cui, nelle “riflessioni” dell’eminente intellettuale franco-belga, anche senza formalmente rilevarlo, si “avverte” una sostanziale consonanza con il messaggio di perfetta “eguaglianza naturale” degli uomini, fortemente sostenuta da Giuseppe Mazzini con il lascito dei “Diritti e Doveri”. Documento che “invita” a riflettere sul fatto che, purtroppo, non ostante questa connotazione di assoluta “identicità”, sussistente originariamente tra gli uomini, identicità che conferisce loro parità di diritti e di doveri, essi, per loro stessa natura, tendono, invece, se non adeguatamente ed opportunamente “educati”, a “prevaricarsi” reciprocamente.
Ragion per cui, non ostante da quasi dieci anni, ci si sia ormai inoltrati nel terzo millennio di un’umanità storicamente testata e datata, così com’è detto nell’”Asinaria” di Plauto, “Homo homini lupus”.
Questa amara considerazione trae conferma e suffragio dal fatto che, appunto, all’alba del terzo millennio, persistono, a volte addirittura con sintomi di particolare accanimento, anche a livello di specifiche ed autorevoli aggregazioni statuali, aberrazioni quali il razzismo, il fondamentalismo, l’intolleranza politico-intellettuale, la discriminazione fra i sessi, la persecuzione delle diversità e dell’omosessualità, fino all’omicidio di Stato, la schiavitù e la pena di morte con la tortura e con ogni altro tipo di violenza disumanamente praticabile.
È morto alla “venerenda” età, è proprio il caso di dirlo, di 101 anni, il famoso Antropologo, che potremmo anche definire il “fondatore” della moderna Antropologia, Claude Lévi Strauss, un nome che, nel contesto di una sostanziale ignoranza globalmente diffusa, alle generazioni dei più giovani, forse, richiama esclusivamente una famosa marca di Jeans.
Il Franco-Belga, ebreo, Claude Lévi Strauss, uomo impareggiabile, accademico di Francia, fondatore dello “Strutturalismo”, studioso senza confronti, esploratore tra i più attenti alla realtà delle cosiddette popolazioni primitive (gli Indiani Borro e Nambikwara, soprattutto, abitanti la foresta amazzonica del Mato Grosso) del Brasile, allora, più che mai e per fortuna, inaccessibili ai viaggiatori alla moda ed agli “itineranti” del cosiddetto progresso, siano essi “missionari” di varia tempra e confessione o ricercatori di “fortune” singole od organizzate per fini industriali, negli anni cinquanta dello scorso secolo (1955) dette alle stampe un libro assai significativo sulle condizioni di vita delle popolazioni, “luogo” ideale dei suoi studi.
In quel libro, dal titolo, anch’esso significativo “Tristi Tropici”, cui seguirà nel 1962, “Pensiero Selvaggio”, divenuto, per sorte, “terreno” d’acceso dibattito polemico con Jean-Paul Sartre, lo scienziato, tra le migliaia di informazioni sugli usi e costumi di quella “gente”, oggetto-soggetto delle sue attenzioni, ebbe ad affermare, cosa che a noi richiama, senza riserve, i valori del diritto naturale e positivo che vedono ogni uomo perfettamente “eguale” ad ogni altro suo simile, che i cosiddetti “selvaggi”, se prescindiamo dal gap tecnologico che li distanzia dalle popolazioni cosiddette “evolute”, non hanno nulla da invidiare a quest’ultime; così come i loro comportamenti interpersonali, di tribù, di famiglia, di gruppo etnico o di clan, nella intrinseca essenzialità di base, non denunciano alcuna sostanziale differenza.
Per quel che ci riguarda più da vicino, con specifico riferimento a quanto appena accennato, alla “commozione” per la “naturale” dipartita d’un uomo così valente e poliedrico (studioso di legge e di filosofia, scopre presto le scienze umane, in particolare, la Sociologia, l’Etnologia e, poi, lo “Sciamanesimo” e l’Animismo delle religioni indigene dell’Amazzonia), che ha permeato di sé, a partire dagli anni trenta-quaranta, l’intero arco culturale del millenovecento, non possiamo non aggiungere amarissime considerazioni sullo stato della condizione umana che contraddistingue la moderna società, ivi compresa quella del nostro Paese; considerazioni che, ad essere sinceri fino in fondo, c’inducono a pensare che la società primitiva, nella semplicità dei propri riti di relazione o di scontro con il suo prossimo, in quanto, indotti soprattutto da ineluttabile stato di necessità, non ha nulla da invidiare ad una società moderna in cui, l’uomo perpetua se stesso, nella sintesi concettuale dell’“Asinaria” di Plauto, in cui è affermato che, senza possibilità di riscatto, l’homo è homini lupus.
Ma perché diciamo questo? Anzi, meglio, perché non possiamo che dire questo?
Non possiamo non dirlo perché, sono di fronte a noi, giorno dietro giorno, le conferme, pressoché in ogni angolo della terra, della mancanza di eticità, moralità, pietà, giustizia, solidarietà e via così, al cospetto delle più efferate crudeltà, discriminazioni, violenze, sopraffazioni, coercizioni etc., non tanto e non solo di connotazione individualistica, bensì di conformazione collettiva, se non addirittura statuale.
Quale Stato, infatti, può ritenersi immune da questa vera e propria “patologia”, il nostro compreso, soprattutto in questi ultimi giorni in cui si sono improvvisamente dischiuse le “uova di serpente” del più bieco razzismo, impersonato dal Ku Klux Klan?
Quale Stato non “accusa”, periodicamente, episodi di violenza da parte delle cosiddette Forze dell’Ordine?
Quale Stato, anche senza accennare a quelli che le ritengono esseri inferiori da segregare, nascondere, “velare” agli occhi impuri del maschio “allupato”, lapidare o sgozzare, magari, se adultere od in procinto d’intessere relazioni di convivenza con partners d’altro costume di vita o d’altra religione, non discrimina diuturnamente le donne, ovvero non “vitupera”, comunque, come dissociati, gli omosessuali d’ambo i sessi?
Quale Stato, infine, in nome della real politik e della convenienza economica non fa strame dei Principi fondamentali o dei Diritti universali stringendo rapporti economici o d’intesa ideologica con altri Stati in cui la libertà e la giustizia sono solo un’opzione di là da venire. Stati in cui, giorno dietro giorno, si tortura o si giustizia l’avversario politico o religioso, s’incarcera chi manifesta anche solo per reclamare una “parvenza” di diritto, si viola psicologicamente e fisicamente la persona del dissidente. Stati quali la Cina comunista, dove assieme ad un accelerato e sorprendente sviluppo industriale “coatto”, tuttora, insieme all’assoluta mancanza di libertà, si pratica la soppressione dell’infante appena nato, qualora ecceda il numero pianificato di figli, così come stabilito d’autorità dal potere costituito, e come, crudamente e dettagliatamente descritto, per ultimo, da Harry Wu della “Laogai Research Foundation” nel libro ”Strage di INNOCENTI, la politica del figlio unico in Cina”, da poco uscito in Italia a cura di Toni Brandi e Francesca Romana Poleggi.
Sempre il 4 Novembre la LIDU, in base ad alcune “rivelazioni” documentali relative alla morte del giovane tossicodipendente Stefano Cucchi, arrestato e poi ricoverato, in gravi condizioni, all’ospedale “Pertini” di Roma, che ha un reparto per reclusi, ed alla luce delle foto del cadavere messe in onda, per volontà della famiglia, dalle reti TV, foto in cui si evidenziano esiti di “probabili” pesanti maltrattamenti e percosse, cui il giovane sarebbe stato sottoposto, una volta “nelle mani” delle forze dell’ordine e del sistema carcerario e sanitario, emette un comunicato-stampa di severa condanna dei fatti, che evidenziano, senz’ombra di dubbio, quale sia il livello di “trattamento” talvolta riservato a chi si trova, colpevole od incolpevole che sia di reato, alla mercé di certi “tutori” della Giustizia.
Nel comunicato che, come corollario, rileva anche l’assai preoccupante “informativa”, proveniente dal carcere di Teramo, da cui emerge, attraverso la registrazione di una conversazione, tra secondini, come anche in quel luogo di contenzione le percosse sui detenuti sia sostanzialmente di moda, si tiene a sottolineare il principio della sacralità della persona.
Principio da rispettare, quale Diritto Fondamentale dell’Uomo, e quale massima salvaguardia dell’intangibilità del cittadino, soprattutto se malato e carcerato.
E questo, con l’aggravante che i fatti in specie, estremamente esecrabili e vili comunque, sono stati compiuti da persone che, grazie alle attribuzioni di ruolo loro conferito dalle istituzioni, trovandosi, nella circostanza, in condizione di predominio psicofisico nei confronti di chi è loro “affidato” per custodia o per cura, non si sono fatte scrupolo di profittare delle loro speciali prerogative per esercitare potestà d’ingiustificata violenza o colpevole sine cura. Da una parte, con soperchierie, maltrattamenti e percosse, e, dall’altra, col tenere in sostanziale “non cale” lo stato di salute del ricoverato-carcerato.
Confessiamo d’essere rimasti esterrefatti al cospetto delle crude immagini del giovane tossicodipendente Stefano Cucchi, ormai cadavere, sottoposto, dai mass-media, all’attenzione della pubblica opinione.
Esterrefatti ed indignati alla vista di un giovane cadavere dal volto gonfio, dalle orbite degli occhi arrossate al limite del paonazzo e dalla schiena parimenti enfia ed arrossata (le fratture vertebrali, in quanto sottocutanee e non “esposte” come si dice in Traumatologia, non erano rilevabili a colpo d’occhio).
Perché mai e come può essere possibile che, in uno Stato che si vanta, nel contesto delle nazioni più “avanzate” dell’Occidente (grazie soprattutto al “Codex iuris iustinianeus” ovvero al “Digestum seu pandectae”) d’essere addirittura la patria del Diritto, una persona, fino a prova contraria, in salute, arrestata e condotta in carcere per un qualsiasi reato commesso, ne esca, dopo qualche giorno, come suol dirsi, con “i piedi in avanti” ed, in più, con evidenti segni esteriori di traumi subiti o procurati? Come può essere che dei “secondini”, quelli del carcere di Teramo, siano stati sorpresi da un microfono nascosto a discutere animatamente, quasi si trattasse di una disputa su come meglio deve essere calciato un rigore, se sia più opportuno o meno che un detenuto debba essere “massacrato” di botte in cella o in un locale isolato dello scantinato?
Ma non lo sanno le guardie carcerarie che il detenuto, in quanto persona, è assolutamente inviolabile, e che l’unico legittimo “vulnus” che possa essergli inferto, qualora risulti incontrovertibilmente colpevole, è quello della diminuzione delle sue libertà personali per il periodo di tempo strettamente previsto dalla condanna?
Come è mai possibile che tali aberrazioni, massimamente esecrabili e vili, perché compiute da personale preposto alla sicurezza pubblica e perché effettuate a danno di chi si trova, colpevole o non colpevole non fa differenza, in condizioni di assoluta subordinazione psicofisica, possano aver luogo nelle nostre carceri e nei nostri ospedali?
Lo chiediamo ai Ministri competenti di Giustizia e Sanità perché se ne facciano carico e provvedano, al riguardo, come questione fondamentale di uno Stato di Diritto e non come questione di routine, magari da affidare a comunicati ufficiali, frutto d’indagini frettolose e di parte, come, a suo tempo (radio radicale l’ha, a bella posta, ricordato in questi giorni), fece il Ministro Rognoni, negando l’evidenza dei fatti (nella fattispecie, trattatavasi di vere e proprie torture a danno di uno dei BR che avevano sequestrato il generale americano James Lee Dozier).
Tratto dal documento della Lega Italiana
dei Diritti dell’Uomo Onlus:
Testimonianza
“Report 2008-2009”
Iniziative, documenti, prese di posizioni, deliberati,
lettere, ecc. in materia di diritti, nel biennio
curato da Gian Piero Calchetti e Sara Lorenzelli
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