In memoria ad Antonio Gelsomino
Thursday, November 14, 2024

I CONFINI DEL MEZZOGIORNO

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I CONFINI DEL MEZZOGIORNO

Ci sono stati tre morti a Torremaggiore alcuni giorni fa, dopo l’eccidio di Melissa. Sono tre morti della lotta della conquista della terra che iniziata nell’estremo lembo dell’antico Regno di qua dal Faro rimonta la penisola. Si presenta in altri luoghi con le medesime forze in contrasto, si svolge col medesimo tragico esito. Domani i conflitti per la terra per la disoccupazione dei braccianti, per le condizioni drammatiche dei contadini potrebbero dilagare nel mio Molise, rimontare i costoni delle Mainarde e della Maiella, raggiungere il Gran Sasso. I confini del mezzogiorno sarebbero disegnati dagli episodi cruenti, con dolorosa evidenza.

I caratteri di un paese non sono mai dovuti alla natura del suolo e alla posizione geografica delle regioni che lo compongono.La storia comune delle genti che lo abitano quando è durata, per un seguito innumerevole di generazioni, stabilisce una parentela di anima che supera i dati della geografia. La storia delle genti meridionali è la storia della terra.In nessun altro luogo di Europa, forse, tutto un popolo per secoli ha avuto la terra come termine immutabile dei suoi conflitti e delle sue speranze. In altre parti d’Italia l’industria, i commerci, hanno trasformato la composizione sociale delle popolazioni; nel mezzogiorno la terra come problema unico, come fonte comune di vita ha impedito il moto di trasformazione, ha dato una penosa staticità alle classi sociali.

Ma questa staticità non è in rapporto con ragioni di latitudine o di condizioni climatiche: è quasi unicamente dovuta alle vicende dell’antico Regno.Il quale fu la sola parte d’Italia governata per secoli con una tradizione giuridico politica che ebbe scarsa evoluzione e conservò quasi immutati i suoi confini. Anche i viceré spagnoli, fino alla ricostituzione del Regno indipendente, si dimostrarono fin troppo rispettosi del groviglio dei decreti leggi, prammatiche, di origine antichissima e che avevano dato una fisionomia particolare all’antico Regno.Questa perennità della podestà regia, la persistenza degli ordinamenti sempre riferiti a una autorità immutabile, diedero alle vicende storiche delle popolazioni meridionali un carattere diverso da quello di tutte le altre popolazioni della penisola.

Si pensi al valore della monarchia accentratrice, in confronto della più varia vita delle altre Regioni d’Italia.In Lombardia, in Toscana, in Emilia, si ebbe la fioritura della autonoma civiltà comunale e, più tardi, quella sanguinosa ma splendida delle signorie.Erano governi eletti, spesso con carattere popolare o il risultato di lotte faziose tra feudatari in conflitto alle quali il popolo partecipava battagliando liberamente.Le provincie meridionali sono estranee a questo processo storico; i comuni meridionali, «le università» rurali non conoscono, per secoli, alcuna autonomia, dipendono, quasi senza eccezioni, dal demanio regio o dalla podestà baronale.

Questa duplice dipendenza portò a un processo lentissimo dei passaggi di proprietà.La mancanza di attivi commerci, di industrie, l’arretrato costume impedirono la formazione di ceti sociali che dessero valido contributo al progresso civile.La grande proprietà si sostituì al feudo quando la feudalità fu dissolta: le stesse quotizzazioni delle terre demaniali stabilite dai Borboni e che continuarono dopo la costituzione dello stato unitario non furono mai elemento sufficiente alla trasformazione dei rapporti economici.Terre assegnate a contadini poveri, a braccianti miserabili tornarono, sempre nel giro di qualche decennio, nelle mani di coloro che erano stati costretti a cederle o andarono ad accrescere l’estensione delle grandi proprietà terriere formate con l’usura e l’usurpazione.Questa vicenda della terra non è calabrese o campana.

Sulle rive del Tronto o nella piana del Tavoliere con maggiore o minore drammaticità il problema si presenta identico.Dove non esiste il latifondo la miseria dei contadini, la loro mentalità, il loro costume, i loro dialetti, le loro superstizioni non sono sostanzialmente differenti.Nonostante la diversa natura del suolo e la distanza, sulla loro vita ha potentemente agito la storia comune, l’abitante del Chietino o della vecchia provincia dell’Abruzzo ulteriore non è meno meridionale dell’abitante del Principato Ultra o della Capitanata.La Santa Fede, il brigantaggio, l’emigrazione di massa sono fatti sociali che hanno radici comuni che hanno avuto la medesima spinta iniziale.

Per chi conosce la letteratura settecentesca intorno alle condizioni dell’antico regno queste affermazioni risultano ovvie.La descrizione dei Galanti, generale per tutte le provincie di qua e di là dal Faro e quelle speciali dovute a studiosi locali, danno tutte le medesime caratteristiche di sviluppo economico e civile.Alle porte di Napoli o nel più sperduto borgo dell’Abruzzo il contadino vive nelle medesime condizioni di miseria e di abbrutimento.Nulla è sostanzialmente mutato da allora.Leggevo recentemente in un giornaletto che si stampa a Benevento una descrizione di Castelpoto, piccolo comune a dodici chilometri dal capoluogo di provincia.

Braccianti che guadagnano centocinquanta lire al giorno, abituati a pagliaie che gli uomini dividono con gli animali.Le condizioni di Castelpoto sono quelle di altri duemila comuni del mezzogiorno.Ma se non sono mutate le condizioni materiali della vita, qualche cosa di nuovo sta accadendo nello spirito dei meridionali, si va rapidamente formando una coscienza unitaria della sofferenza.L’antico Regno geograficamente ben delineato, chiuso tra l’acqua santa e l’acqua salata, come diceva Ferdinando Secondo, mancava della consapevolezza di un’altra più profonda e sostanziale anche se meno evidente unità.

Un tempo ogni villaggio pareva avesse i suoi problemi particolari, mancava il senso del rapporto, la capacità di identificare la causa comune della comune miseria. Esistevano gli studi sulla questione meridionale; i grandi fenomeni sociali del mezzogiorno avevano ispirato alcune delle opere più valide della nostra letteratura narrativa, ma il popolo che era oggetto di sottili indagini economico politiche o ispirava la fantasia degli scrittori mancava della consapevolezza attiva dei suoi problemi.In questi ultimi anni questa coscienza sta sorgendo, la questione meridionale sta diventando la questione dei meridionali. I braccianti, i pastori, i contadini, gli operai, che erano entrati per virtù d’arte nel panorama mentale dei borghesi italiani sono usciti dall’aura dilettosa della fantasia e degli schemi degli economisti e si battono per il loro diritto alla vita; una vita finalmente umana.

Francesco Jovine

L’Unità (Edizione Nazionale) 13 dicembre 1949 pag. 3

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Francesco Jovine - biografia

 

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