LA FORMAZIONE CULTURALE E IDEOLOGICA
La narrativa di Francesco Jovine si presenta con il carattere di una progressiva maturazione, la cui radice è essenzialmente interiore più che frutto di influenze esterne, letterarie o ideologiche. Per comprendere a fondo una così ricca e autonoma personalità di scrittore è, comunque, necessario analizzare la natura del rapporto via via intessuto con le esperienze culturali, filosofiche e politiche della prima metà del Novecento. Nell’ambito letterario, Jovine appare isolato rispetto alle mode del tempo e immune dagli sperimentalismi, tipici di coloro che non hanno un proprio centro focale di ispirazione.
Non ignora il rinnovamento in atto nel primo dopoguerra, - gli stessi anni della sua formazione -, né vuole rimanere attardato nella cultura che è stato costretto ad assorbire dall’ambiente provinciale di provenienza; individua, però, con precoce chiarezza un mondo umano e sociale che sarà nel contempo tema narrativo ed impegno morale.
Lo stesso autobiografismo diviene, - dopo le prime rievocazioni lirico-bozzettistiche -, storia di un’intera popolazione, storia corale della “difficile, aspra” terra molisana. Vale tuttora il giudizio formulato negli anni ’60 da A. Leone De Castris: i riferimenti culturali e le influenze letterarie presenti nell’opera di Jovine “vanno contenuti e assunti con discrezione e mai come apporti determinanti nelle scelte più personali e autentiche…. possono essere segni, o anche occasioni, di uno svolgimento e di una maturazione, ma non valgono in alcun modo a chiarirne le intrinseche ragioni”. (Realismo di Jovine in Convivium, 1961, p.56).
Quella di Jovine è una presa di coscienza che si sviluppa su due direttrici, sentimentale ed intellettuale, per cui la sua narrativa ha il calore della partecipazione umana e l’esattezza dell’indagine storico-sociologica. Da un profilo autobiografico delineato dallo stesso Jovine (in Fiera letteraria, 10 ottobre 1946), si può ricavare un percorso esistenziale comune alla piccola borghesia meridionale, di origini contadine:
Ho fatto cattivi studi, in collegi di provincia, inadatti al mio temperamento. Da ragazzo studiavo pochissimo ma leggevo ininterrottamente; siccome a casa mia non c’erano che libri antichi, mi è capitato di leggere Machiavelli, Guicciardini, Tasso, Metastasio e la Storia universale del Cantù prima che Gabriele D’annunzio e Guido Gozzano. Fino a vent’anni non ho avuto nessuna notizia della letteratura contemporanea; non può perciò destare meraviglia il fatto che durante l’infanzia la mia prepotente vocazione letteraria prendesse a modello autori vecchi di almeno un secolo. A nove anni scrissi i primi dieci capitoli di un romanzo storico (Lodrisio Visconti), a undici il primo canto di un poema in terza rima su Ezzelino da Romano.
In altri articoli autobiografici del ’48, Jovine fa risalire all’infanzia il primo contatto con la dolorosa realtà della sua terra e con la poesia: ai tempi in cui, bambino, seguiva per i campi il padre agrimensore o ascoltava dalla sua voce, nelle serate invernali, i versi del Parzanese e i racconti tra il serio e l’umoristico di storie paesane o brigantesche rievocanti atmosfere di un “mondo sepolto”. La provincia è per me una specie di sogno. Sono venuto via dal mio paese di Guardialfiera a nove anni e nessuno là mi conosceva fisicamente. Fino ai quindici anni ritornavo là d’estate, per un po’, durante le vacanze, poi in venti anni mi avranno visto appena tre volte. Conosco il Molise attraverso i racconti di mio padre e un po’ per istinto. In me quella terra è come un mito tramandatomi dai padri e rimasto nel sangue e nella fantasia (Mario Guidotti, intervista con Jovine in La Fiera Letteraria, 9 gennaio 1949).
Le vie della “simpatia” tra lo scrittore e la sua regione passano, dunque, attraverso le suggestioni infantili, rivelanti una sensibilità, istintivamente disponibile, e poi, in età adulta, attraverso le esperienze intellettuali, che gli permettono di trovare confermate le personali constatazioni nelle opere storiche e socio-economiche di onesti studiosi della “questione meridionale”. Già a vent’anni, l’interesse letterario, pur preminente, acquista senso ai suoi occhi, in relazione ai rapporti, - sempre meno emotivi e più razionali -, con la realtà della sua terra. Mentre allarga la propria cultura con la conoscenza di poeti e narratori contemporanei, italiani e stranieri, predilige la lettura di Vico, Muratori, Cuoco, Galanti, perché l’illuminismo meridionale gli offre un modello per interessarsi alla “provincia” senza cadere nel provincialismo e nel folklore.
Un modello su cui conforma ancor più lucidamente la sua opera negli anni quaranta, gli anni della seconda guerra mondiale, del Partito d’Azione, del dopoguerra, quando la battaglia per la rinascita civile-politica è tutt’uno con il meridionalismo e Jovine avrà letto e assimilato la lezione di Giustino Fortunato, Guido Dorso, Sonnino, Franchetti, Salvemini, Tommaso Fiore. Appartengono al decennio ’40-’50, l’ultimo della sua vita, i racconti e i romanzi più completi, in cui i dati scientifici e storici sono assorbiti e fusi come parte integrante della narrazione e i personaggi non risultano bozzettistici o propagandistici; hanno invece coerenza narrativa e umana, vivono con piena autonomia psicologica e proprio per la loro umanità il messaggio che propongono acquista forza più incisiva.
“Jovine sa trasformare tutto in un racconto” (E. Ragni, F. Jovine, La Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 9).
L’equilibrio che Jovine sa conquistare scaturisce dal fatto che la sua adesione alla realtà non è solo una scelta intellettuale, l’adozione di una poetica del vero ma esprime una disposizione spontanea alla sincerità oltre che un notevole spirito d’osservazione. Elementi innati su cui si innestano in modo felice gli esempi della migliore tradizione ottocentesca che rappresentano per lui il simbolo di una letteratura di vasto respiro, che sia capace di abbracciare tutta l’estensione e la complessità del reale, di essere sintesi dialettica tra componenti intellettuali, storiche, artistiche.
La critica su Jovine è concorde nel rilevare l’assenza, o il ripudio vero e proprio, delle correnti letterarie contemporanee (a parte qualche residuo nelle prime opere) e dà per scontata l’influenza dei grandi esponenti del romanzo dell’800 (Manzoni, Nievo, Verga). Eugenio Ragni, in particolare, elabora un’indagine più analitica sulle qualità e i risultati artistici raggiunti da Jovine nell’assimilare “attivamente”, fare propria e rendere ormai diversa l’eredità ottocentesca (cfr. op. cit.). Nel primo periodo dell’attività letteraria, tra il ’25 e il ’34, Jovine comincia a percorrere le tappe di una graduale conquista espressiva, oltre che umana e morale, che lo porterà alla fine a risolvere entro se stesso una crisi culturale che era sua come del suo tempo.E’ un itinerario non facile, a causa di un temperamento alieno da ogni compromesso o passiva accettazione delle mode allora in voga.
“Francesco Jovine era uno scrittore che non amava le formule”
(F. D’Episcopo in F. Jovine, Commedie inedite e cronache teatrali, introduzioni e cura di F. D’episcopo, Longo, Ravenna, 1983, p.9). Appena giunto a Roma nel ’25, prende contatto con i programmi e le poetiche del momento,ne individua subito la fragilità e la povertà ed assume un atteggiamento di riserva.Il suo non è conservatorismo né incomprensione per la rivolta novecentesca contro il vecchio e l’accademico; è rifiuto della “chiassosità”, della “rivolta fine a se stessa”.
Polemizza contro i residui del dannunzianesimo o l’intellettualismo pirandelliano, contro gli ermetici, i surrealisti, contro il calligrafismo estetizzante, cioè il gusto della pagina bella, “classica”, che viene proposto dalla rivista La Ronda (1919-22) e prevale per tutto il ventennio tra le due guerre mondiali, influenzando sia Solaria (1926-36), - pur interessata alle letterature straniere (Proust, Joyce, Svevo, e poi i narratori americani) -, sia gli “scrittori nuovi” (Vittoriani, Pavese) che nel secondo dopoguerra daranno vita la neorealismo.
Dal ’26-’27, con l’assidua collaborazione giornalistica a vari quotidiani e riviste, Jovine si impegna in un altro fondamentale campo della sua attività culturale: la riflessione su tempi pedagogici, filosofici, estetici, storici, sociali, politici. Su tali “poli privilegiati” si muove la”recherche joviniana” mirante ad una società rinnovata “prima che all’esterno, all’interno della propria coscienza”. (cfr. F. D’Episcopo, Commedie…, op. cit. p. 12). In questa fase centrale di lavoro critico, Jovine prende le distanze dal calligrafismo contemporaneo ma è anche in grado di evidenziare i limiti del cosiddetto neorealismo, i cui esponenti, “per sfuggire alla retorica della pura forma minacciano di crearne un’altra: quella del puro contenuto”. (F. Jovine, La realtà e il fanciullo in I Diritti della Scuola, 29 sett. 1934).
Il dissenso gli costa non pochi sacrifici: l’isolamento nel dialogo culturale, freddezza e incomprensione per la sua prima opera importante, Un uomo provvisorio, pubblicata nel ’34. Con il complesso crogiuolo del romanzo si libera del tutto da un vasto materiale letterario-culturale che non gli è congeniale, e può ritornare alla terra oltre che alla tradizione narrativa del realismo. Dirà nel ’49: “Dovevo pagare un tributo alla giovanile esperienza della confessione. Ecco così l’Uomo provvisorio che… io considero come un’autobiografia mentale”. (cfr. Mario Guidotti, op. cit.).
La crisi del protagonista Giulio Sabò è la stessa di Jovine e della sua generazione, minata dagli aspetti più vistosi del fascismo e da quelli più capillari: passività, ipocrisia, evasione dalla realtà.
Agli inizi, come gran parte degli italiani, Jovine attesta una certa simpatia verso il fascismo: “Mussolini ha cambiato la faccia all’Italia (in I diritti della scuola, 17 marzo 1929); poi, malgrado epidermiche posizioni nel ’31, favorevoli più sull’uomo Mussolini che sull’ideologia in sé, egli matura un’opposizione che è il naturale approdo delle sue radicate esigenze morali.
La retorica del fascismo, - e di una finzione politica e letteraria molto diffusa, in quegli anni -, tende a rifiutare la tradizione popolare, ambientale, per cui “la dittatura era nazionalista ma non nazionale”. (cfr. Corrado Alvaro, Il nostro tempo e la speranza).
Jovine approda all’antifascismo per convinzione; scavando in sé stesso, scopre il “mondo sepolto” molisano come “luogo della verità”, una realtà viva e lancinante sempre presente nella sua memoria.La rottura, in atto già da molti anni, diviene clamorosa nel ’37, quando non accetta il grado di centurione che gli spetta in equivalenza al ruolo di direttore didattico. Si definisce “antimilitarista” davanti al Ministero dell’Istruzione e chiede in incarico presso le scuole all’estero; per tre anni insegna a Tunisi e al Cairo, restando lontano dall’Italia fino al 1940.Parallelo ai processi di “chiarificazione” formale e politica - e anzi, in organica fusione con essi - si sviluppa quello filosofico-estetico-sociologico.
Si apre una breve parentesi di “atteggiamento gentiliano” nel ’22, mentre, - militare di leva -, studia filosofia e si prepara al concorso magistrale. Qualche segno della concezione gentiliana, rilevabile ancora nel ’29 e nel ’31, è dovuto al frequente contatto con Giuseppe Lombardo Radice, suo relatore per la tesi di laurea nel ’29 e titolare della cattedra di pedagogia al Magistero di Roma ove rimane come assistente per qualche tempo. In effetti, dall’idealismo di Giovanni Gentile si distacca subito, perché lo vede compromesso dall’aggancio antiliberale con la dottrina fascista. Ben diversa gli appare la severa lezione di Benedetto Croce contro la tradizione italiana arretrata e accademica. Jovine, che si è formato su Vico e De Sanctis, nei suoi esordi trova piena consonanza sulla concezione estetica oltre che sulle idee filosofiche e politiche di Croce.
In un saggio del giugno 1927 su Italianissima, tale posizione è chiaramente delineata: l’opera d’arte è un “prodotto d’intuizione” che non si può classificare secondo “pregiudizi contenutistici”, con “una scala di valori pratici che non hanno niente a che fare con l’arte”. Nel ’31 (I diritti della scuola, 15 marzo) sulla scorta dell’Estetica di Adriano Tilgher, avanza delle riserve al sistema crociano; rilievi che si inseriscono nelle polemiche allora vivaci, e culminate nel ’33, sul rapporto arte-vita.Difende, però, la “mirabile probità” e il “severo senso critico” che sollecitano il filosofo napoletano a continue revisione della teoria estetica espressa nel 1902. (cfr. I diritti della scuola, 7 maggio 1933).
Negli anni quaranta si allontana dalle concezioni filosofiche e politiche di Croce perché il liberalismo, - che pur era stato salutare nei tempi della dittatura -, viene superato da un’istanza sociale più radicale. Il suo sviluppo ideologico ha come punto d’arrivo l’adesione al marxismo ma la componente idealista traspare fino all’ultimo, nel carattere di un’opera letteraria “impegnata” senza correre mai il pericolo dell’arte a tesi, e nella qualità dell’intervento alla discussione accesasi nel ’48 tra gli intellettuali di sinistra sul tema letteratura-società. Jovine offre un contributo importante perché le problematiche marxiste sono esposte senza le superficialità o i dogmatismi comuni a molti altri, e vengono formulate osservazioni che rivelano la rielaborazione dell’estetica crociana accanto alla coerenza con le nuove idee.
Dopo il ’40, al rientro in Italia, si lega d’amicizia con uomini “liberi” della cultura antifascista (Sapegno, Levi, Debenedetti, Bontempelli, Muscetta e altri); studia Kant, Freud, Croce, legge i grandi realisti dell’800 italiano e russo; conosce le opere dei “meridionalisti” e ne assimila la lezione. Nel percorso ideologico, tappe essenziali sono l’adesione alla Resistenza, al Partito d’Azione, al pensiero di Antonio Gramsci, e l’iscrizione al Partito Comunista nel ’48. E’ il momento di una svolta politica italiana e di un serrato dibattito ideologico e culturale sul rapporto tra letteratura e società, riguardo al quale Jovine, - che intanto ha portato avanti una febbrile attività di giornalista, di narratore, di critico teatrale, - dimostra idee personali e ben meritate. Ha già sottolineato, nel ’46, che “l’intelligenza ha sofferto di solitudine” negli ultimi decenni; nel ’47 ha esortato la cultura a “rientrare nel circolo” della storia, della vita umana concreta, per essere il “massimo strumento della educazione collettiva di un popolo”, lo specchio per esprimerne i “confusi moti dell’anima”.
In un articolo del 20 novembre 1948 su L’Unità (Dibattito su “Letteratura e società” - La parola a Jovine), va oltre, incalza che l’impegno del nuovo intellettuale non può più limitarsi alla “funzione” della guida ma deve assumersi la responsabilità diretta della lotta, per superare la letteratura come “falsa coscienza”.Sostiene che “il rapporto fra scrittore e società è un rapporto necessario”. Ciò non implica il pericolo di un condizionamento perché “l’artista non subisce l’influsso della società nella quale vive, ma crea la sua società; come la creano con lui lo scienziato, il politico, il pittore, il tecnico”.Nel contempo pone l’accento sulla umanità dell’artista, che “vive in questa società e se è dotato di intelligenza, fantasia e ha profondo impegno morale, è scrittore, artista sociale nel senso più alto del termine. La socialità della sua opera non sarà però il frutto di una esigenza estrinseca o di un programma, ma il risultato di quella sua diretta adesione morale alla società il cui vive”. Altrettanto netta è la posizione circa il rapporto tra l’intellettuale “sociale” e la politica del partito cui appartiene.
“Noi crediamo alla spontaneità dell’arte, e crediamo fermamente che raccontare o poetare sia un particolarissimo ragionare per immagini e non per concetti; e le immagini fioriscono nell’anima per processo misterioso che non si impone dall’esterno”. In questo scritto, - pur occasionale e non rielaborato in una trattazione sistematica -, Jovine dimostra il fermo convincimento che l’impegno in una missione non significa esserne succubo e che le ragioni di un credo, ideologico o letterario, vanno definite nel mondo interiore dell’artista. “Non sembrerà più dubbio che la letteratura realistica di Jovine rappresenta una precisa scelta, non il segno di un ritardo”. (E. Ragni, op. cit. p. 49).
La scelta è contro il “disimpegno” morale, contro i programmi e i “manifesti”, - che spesso sono un paravento per la povertà di idee e la carenza di fini educativi-, contro l’insincerità.La scelta è per la rappresentazione di una realtà umana, inserita nella storia e “ricreata” nell’intima ricchezza dell’autore. Le pagine dei suoi libri testimoniano che Jovine ha ricercato ed attuato in piena coerenza tali proposte, con doti peculiari di modestia, discrezione, sincerità, poesia.
Tratto da:
Francesco Jovine
Redatto a cura di: Anna Maria Sciarretta Colombo
Con la collaborazione di: Miranda Jovine Tortora
Della F.I.D.A.P.A (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari) Sezione di Termoli (CB).
Immagine:morguefile
CONSULTA ANCHE:
Francesco Jovine - personalita' narrativa
Francesco Jovine - scrittore maturo
Signora Ava di Francesco Jovine
Francesco Jovine - l'uomo diviso tra due civilta'
Signora Ava per i 150 anni dell'Unita d'italia
Addio a Jovine di Libero Bigiaretti
Il posto di Francesco Jovine nella narrativa italiana