Francesco Jovine e il Molise: luci ed ombre di un rapporto con le proprie radici.
La cultura di un paese, per essere veramente valida, deve rappresentare il massimo strumento dell’educazione collettiva di un popolo, lo specchio nel quale esso riconosca, espressi chiaramente, i confusi moti della sua anima. Occorre insomma, che la cultura abbia carattere corale, che gli scrittori, gli storici, i filosofi lavorino tenendo presenti nel loro lavoro tutti quelli che essi presumono siano chiamati ad ascoltarli. Solo così la cultura divenuta fatto determinante nella vita di un popolo; vale a dargli fisionomia, a esprimere gli ideali, a portare l’elemento fondamentale del suo genio, a divenire parte necessaria della vita universale.*
Non è facile giudicare autori e opere dalla fine degli anni venti agli anni quaranta, date le condizioni eccezionali ignare, e particolarmente culturali e letterarie, in cui il paese visse, con interventi esterni via via sempre più esigenti e pesanti. Se non è possibile congetturare che cosa di più e di diverso i soggetti avrebbero saputo o potuto pensare e scrivere, quel che è noto è l’ambiente oggettivo e le verità di fatto che esso determinò: non vi fu rivista letteraria che non subisse censure, richiami o soppressioni; molti scrittori o perché ebrei o perché costretti all’esilio furono del tutto esclusi dalla vita del paese; tutte le opere dovettero passare attraverso le maglie della censura dove soffrirono tagli anche sostanziali; molti scrittori si adattarono, per evitare il peggio, a metodi di autocensura o scelsero addirittura il silenzio e le loro collaborazioni alla stampa furono o del tutto asservite o innocue.
Ma al di là di questi pur gravissimi condizionamenti particolari, quel che appare più grave fu il clima generale suggeriva la retorica o il passaporto della piccola lode o conduceva ad acquiescenza, a furbizia, a diplomazia verbale e anche, naturalmente, a cedimenti in un sistema in cui non soltanto all’intellettuale ma ad ogni cittadino era precluso il libero pensiero e la sua espressione.
Quello che con troppo generoso giudizio è stato definito (consenso generale di massa) si rivela in realtà, almeno per quanto riguarda le attività della cultura, uno pseudo consenso obbligato, in cui il massimo della libertà consisteva nell’astensione, cioè nel parlar d’altro o nell’inventare un linguaggio allusivo perché qualcuno potesse leggere tra le righe qualche timido o sibillino riferimento.
Il condizionamento politico fu dunque determinante per la produzione letteraria?
E’ difficile tanto affermarlo quanto negarlo, poiché è evidente che la letteratura, come l’arte, ha una sua storia non così immediatamente condizionata dall’esterno. La dinamica che sottende alla produzione artistica e letteraria di un paese come l’Italia in quel delicato momento storico risulta molto più complessa ed articolata e rifugge a qualunque spiegazione semplicistica. L’analisi richiede un’attenzione specifica che esclude le generalizzazioni: se si scende, infatti, alle singole opere, sono innegabili i fermenti tarpati, le acrobazie deformanti, i silenzi auto o etero imposti, segno evidente che all’origine di ogni “prodotto” letterario vi è l’uomo o la donna che lo scrive.
Una gara tra governo e partito si va sempre più impegnando a intervenire nel campo dell’attività letteraria, artistica culturale, non trascurando le minuzie; e non mai per esprimere suggerimenti o desideri, ma soltanto ordini o diffide o divieti. Achille Starace segretario del Pnf negli anni d’oro del regime, intervenne ripetutamente imponendo cose di questo genere: “Prescrivo che negli atti d’ufficio la parola Duce sia scritta tutta in lettere maiuscole” (11 febbraio 1933).
Talvolta con una pignoleria da maestro elementare: “La parola Fascista pur essendo di natura oggettivale va scritta con l’iniziale maiuscola; va scritta, invece, con l’iniziale minuscola quando si adopera come aggettivo di un determinato sostantivo” (11 marzo 1934). A queste cose che oggi possono anche suscitare il riso subentrano col passare degli anni interventi più gravi e sinistri; gli ordini ai giornali diventano sempre più tassativi e difficili da sfuggire; vi erano delle disposizioni specifiche e puntuali, delle quali non si poteva assolutamente prescindere, “Domani i giornali devono pubblicare d’obbligo quattro o cinque fotografie della rassegna alle truppe. Basta una fotografia del Duce. Le altre debbono riprodurre schieramenti, cannoni, reparti in marcia” (9 ottobre 1940).
Fin dal 1932, l’ufficio stampa del capo del governo era intervenuto sull’uso dei dialetti che furono gradualmente vietati, allo scopo di sopprimere divisioni e particolarismi regionali, provinciali o campanilistici; pertanto nel 1934 si giunse alla chiusura di ogni giornale e rivista dialettale. Ma fin dal 1935 non sono solo lingua e giornali ad essere presi di mira, ma anche gli scrittori e gli intellettuali. Vengono chiusi circoli, circoletti culturali e simili nei quali si annidano spesso residui di antifascismo. Per evitare la chiusura, i detti circoli sono tenuti ad aderire , a federarsi con gli Istituti Fascisti di Cultura.
Naturalmente le stesse maglie che strinsero le opere di narrativa o le collaborazioni giornalistiche condizionarono le opere teatrali per le quali fu imposto l’uso del “voi” e che vennero colpite, ad opera di un apposito ispettorato del teatro, ogni volta che tentarono argomenti ritenuti scabrosi o non morali come il suicidio o i figli illegittimi.
Ma accadde che venisse negata la rappresentazione de La Mandragola di Machiavelli o La favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello, tanto che nel 1938 un gruppo di scrittori, tra i quali Tommaso Marinetti e Massimo Bontempelli, si rivolsero a Dino Alfieri allora ministro della cultura popolare perché venisse attuata “una censura spiritualmente più larga per consentire agli scrittori del teatro italiano nell’era fascista l’emancipazione dei loro spiriti creativi”. Ma il ministro non dette segno di risposta.
Secondo un’opinione largamente diffusa in Italia, lo scrittore non si sottrae a una duplice sorte: essere un arcade o un ribelle; essere ornamento delle corti, della bella società, commemorativo della nostra cultura, che accetta solo quando lo spirito delle opere ha perduto il suo significato veramente vivo e attuale il compito di rimpiangere e glorificare. Le nostre cronache letterarie grondano di lacrime postume. Quali e quanti siano i limiti e i ceppi imposti alla mente e alla vita pratica degli scrittori italiani è difficile dire; ma tutti si riducono ad un unico termine: la perenne sostanziale mancanza di libertà del popolo italiano. **
Vincenza Dott.ssa CASILLO
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI «FEDERICO II»
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
CORSO DI LAUREA IN LETTERE MODERNE
ELABORATO DI LETTERATURA ITALIANA
Signora Ava (1942) di Francesco Jovine il Molise contadino e l’Unità d’Italia
ANNO ACCADEMICO 2012-2013
*E. Ragni, Rientrare nel circolo, in <<Il mondo europeo>>, 15 aprile 1947
**Invito in Arcadia, in <<Rinascita >>4-5; 1948, pag. 163
Immagine:morguefile
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