Anche per i Serbi il principio del sec. XIX fu l’alba di un intenso rinnovamento culturale.
Fra essi, anzi, questo rinnovamento fu più rapido e radicale, perché più basso era stato il livello culturale dal quale esso si era iniziato.L’attività di Dositeo e dei suoi compagni era coincisa con i primi sforzi dei Serbi per liberarsi dal dominio turco, sicché i frutti di essa poterono estendersi anche alla Serbia: fra il 1815 e il 1830 sorsero scuole e istituzioni culturali di qua e di là del Danubio. Nel campo letterario il progresso si compì su due linee per lungo tempo indipendentemente e spesso divergenti.
La prima è rappresentata da numerosi scrittori oriundi, come Dositeo, dei territori serbi soggetti alla monarchia austro-ungarica: nella loro attività predominano traduzioni, rifacimenti e imitazioni dal tedesco; nell’altra appare per alcuni decenni unicamente la grande figura di Vuk Karadžić: che non fu né traduttore (la sua versione della Bibbia ha carattere e scopo del tutto speciali) né creatore originale, ma raccoglitore, in tutte le sue manifestazioni, della letteratura del popolo, che egli illustrò e sorresse con grammatiche, dizionari e con la riforma dell’ortografia cirillica.
I primi continuarono le correnti illuministiche, con qualche predilezione per il genere sentimentale, romanzesco, e per un classicismo di sapore prettamente scolastico (frutto dello studio del latino e del greco, nonché di diligenti letture di Klopstock sono, per esempio, le odi del vescovo L. Mušicki, 1777-1737); Vuk invece seguì i precetti del romanticismo e alla lingua ibrida – arcaizzante e russizzante – dei suoi avversari, oppose il parlare del popolo, in tutta la sua purezza.
Nell’antagonismo che durò a lungo, vinse Vuk: prima presso i giovani, fra i quali il filologo D. Daničić (1825-1882) propugnò strenuamente le sue idee dal punto di vista scientifico, mentre B. Radičević (1824-1853) ne dimostrò l’applicabilità nella poesia con la sua opera che, portata dall’onda leggiera della lingua e del verso popolare, è tutta brio e freschezza; poi, anche nelle sfere ufficiali, che nel 1868 furono costrette ad accettarne anche la riforma ortografica, contro la quale l’opposizione era stata accanitissima.
La vittoria di Vuk ebbe un’importanza tanto maggiore, in quanto che il dialetto štocavico da lui promosso fu adottato anche dai Croati, agevolando così un avvicinamento fra le due letterature. Il significato che essa ebbe ancora ai suoi tempi presso i Serbi appare dal fatto che l’opera di J. St. Popović (1806-1856), fondatore del dramma serbo, osservatore acuto della realtà, fu per lungo tempo avversata dalla critica e dal pubblico, perché contraria, spiritualmente e formalmente, alle riforme di Vuk. Contrario al romanticismo fu anche S. Milutinović-Sarajlija (1791-1847), nel quale l’attaccamento al classicismo tedesco, mal conciliabile col suo temperamento e con la fonte principale cui attingeva – i canti popolari -, intorbidò i canti glorificanti le lotte per la liberazione serba.
Allo spirito di questi canti rimase più vicino, pur battendo vie proprie, il suo allievo, il principe montenegrino P. Petrović Njegoš (1813-1851), che per profondità di pensiero e elementare forza di espressione ci appare oggi come la figura più interessante della letteratura dei Serbi e dei Croati, il più perfetto rappresentante di una civiltà eroico-patriarcale, le cui concezioni etiche e sociali trovano nel suo capolavoro, Gorski Vijenac (1847), una trasfigurazione poetica di singolare potenza.
Accanto alla rude grandezza di Njegoš passano in seconda linea il dolce poetare romanticheggiante del fecondo Zmaj Jovan Jovanović (1833-1904), lo scapigliato lirismo di D. Jakšić (1832-1878) e la torbida irrequietezza di L. Kostić (1841-1910) che ha speciali meriti come traduttore di Shakespeare. Tutti questi poeti provengono dal Banato o dalla Bačka, allora centro della cultura serba, tutti hanno come modelli principali poeti tedeschi (Heine) e ungheresi (Petőfi), e tutti sono più o meno legati al movimento democratico-nazionalista dell’Omladina (Gioventù, 1866-1872), che fra l’altro, diffondeva tra i Serbi il culto di Mazzini e di Garibaldi. Contro il romanticismo insorse il battagliero S. Marković (1846-1875), allievo del russo Černyševskij, propugnatore del socialismo nella politica e del realismo nella letteratura.
E, infatti, un po’ sotto la sua influenza, ma più ancora per il fatto che la Serbia, ottenuta la propria indipendenza politica, poté rivolgere, prima della Croazia, il suo sguardo ai problemi sociali, il realismo vi attecchì già intorno al 1870 (romanzi di J. Ignjatović, 1824-1888), senza però giungere ad una visione totalitaria dei diversi problemi che poneva la vita serba e limitandosi a rappresentarne, per lo più in brevi racconti, singoli aspetti: ora con un interessamento prevalentemente folkloristico (Stj. Ljubiša, 1824-1878; J. Veselinović, 1862-1905), ora con una più intima, e artisticamente più efficace, adesione agli argomenti trattati (il miglior novelliere serbo, L. Lazarević, 1853-1890; Sv. Čorović, 1875-1919) e ora infine anche con felici spunti umoristici o satirici (S. Matavulj, 1852-1908; St. Sremac, 1855-1906; P. Kočić, 1877-1916). Ma il temperamento di questi tutti questi narratori, che risentono soprattutto l’influsso del racconto russo e francese, ma talvolta anche (come è il caso dei Dalmati Ljubiša e Matavulj) di quello italiano, è soprattutto sentimentale, sicché il loro realismo è di regola incrinato di residui romantici.
Gli unici che abbiano raggiunto nell’arte un’espressione immediata, senza diaframmi di tendenze e scuole, sono: B. Stanković (1876-1927), il cui romanzo Nečista krv (Sangue impuro, 1911), tutto fremiti di passione, rivela quel groviglio di razze e tradizioni che si è incrociato nella Serbia meridionale; e M. Uskoković (1884-1918), raccolto osservatore del tragico problema degli intellettuali del suo tempo. Nella poesia il distacco tra quelli che erano maturati intorno al 1860 e quelli che emersero negli ultimi vent’anni del sec. XIX fu ancora minore.
Anche in V. Ilić (1862-1894) e più ancora in A. Šantić (1868-1924) la poesia ebbe pur sempre quel carattere familiare e provinciale, così caro ai poeti della Omladina.Si perfezionò il verso, ci si emancipò parzialmente dal dominio un po’ tirannico dei canti popolari, si ebbero anche momenti felici di suggestiva intimità lirica, ma i motivi poetici rimasero su per giù gli stessi e dietro ai versificatori serbi continuò a profilarsi la figura di Heine. Come liberazione e rilevazione furono perciò salutate le poesie di tipo parnassiano, tecnicamente impeccabili, ambiziosamente occidentali, e qua e là anche permeate di un insinuante sentimentalismo, di J. Dučić (1874), nonché quelle meno brillanti, ma pur sempre improntate a dignitosa modernità di pensiero e di espressione, di M. Rakić (1874).
Piuttosto appartati e incompresi, perché meno appariscentemente moderni, rimasero, al principio della loro carriera poetica, S. Pandurović (1883), la cui poesia è in Serbia l’espressione più riuscita del disagio morale della generazione dell’anteguerra, e Sv. Stefanović (1877) col suo intimo senso di solidarietà umana.Tutt’e due, ma specialmente Stefanović, traduttore di Shakespeare e studioso di letteratura inglese, sono molto meno vicini alla letteratura francese di quanto non lo sia il gruppo Dučić-Rakić.
Tuttavia, tra il 1900 e il 1914, la moda letteraria viene soprattutto dalla Francia.Alla Francia deve molto, pur preferendo trattare argomenti di vita belgradese, il fecondo e scaltrito commediografo Br. Nušić (1864), che è da quasi mezzo secolo l’incontrastato corifeo del teatro serbo; e alla Francia debbono il loro metodo i critici letterari B. Popović (1864) e J. Skerlić (1877-1914).
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