Letteratura serbo-croata-dalmato-ragusea
Le speciali condizioni etnografiche, geografiche e politiche in cui le città dalmate sono venute a trovarsi sul finire del Medioevo – popolazione autoctona di origine latina, con nuovi apporti dall’Italia, soprattutto da Venezia, e dal retroterra slavo; dipendenza politica da Venezia, ad eccezione del piccolo territorio raguseo; contatti pacifici ininterrotti con l’Italia, accanto ad una costante penetrazione commerciale nei Balcani da parte dei Ragusei, e frequenti lotte con i Turchi in difesa della Dalmazia veneziana – hanno creato in esse anche particolarissime condizioni culturali e letterarie. Mentre sotto la dominazione turca è stata non soltanto preclusa ogni possibilità di sviluppo alla cultura balcanica, ma anzi le terre serbe, e in misura un po’ minore quelle croate, sono state ricacciate, sotto molti aspetti, in uno stato premedievale, la Dalmazia costiera partecipa tutta, con tenacia e talento, al Rinascimento italiano.
E vi partecipa, prescindendo dalle belle arti, non solo con numerose opere latine e italiane, ma anche creando una nuova letteratura in lingua serbo-croata.
Al carattere presso che unitario della cultura dalmata dalla fine del sec. XV alla fine del sec. XVIII corrisponde quindi una letteratura trilingue. Questo trilinguismo non è però generale e riguarda solo la poesia e il dramma. Nelle opere di carattere storico (di storia politica e letterario), filosofico e scientifico, i Dalmati si sono sempre serviti o del latino o dell’italiano.La poesia in lingua serbo-croata – che in Dalmazia non è mai stata lingua ufficiale – vi ha infatti carattere esclusivamente dilettantistico, provinciale, coltivata da amici per amici, da una piccola cerchia per una cerchia non molto più grande.Il che non vuol dire che tale produzione, a parte il suo valore documentario (nei secoli XVI e XVII non vi sono, in lingue slave, che due letterature: la polacca e la serbo-croata di Dalmazia e Ragusa), sia del tutto priva di valore artistico.
I poeti dalmati, pur seguendo pedissequamente la letteratura italiana del tempo, erano troppo addestrati alle raffinatezze dello stile poetico italiano del Cinquecento e Seicento, perché le loro versioni, parafrasi e imitazioni non dessero loro occasione di dar prova della propria cultura letteraria e del proprio gusto.Ne è risultata una letteratura di scarsa levatura e spontaneità di canto, ma interessante e istruttiva per la creazione che vi si compie di un nuovo linguaggio poetico, e per le felici trasposizioni in essa e gli industriosi adattamenti di formulari metrici e stilistici.
E qua e là, anche in questi scrittori da serra, appare una più intima adesione alla propria vita spirituale, più consapevole anch’essa con l’arricchirsi dei mezzi espressivi, e capace di spaziare, con le sue aspirazioni patriottico-umanitarie (com’è avvenuto nel capolavoro di questa letteratura, l’Osman di Gondola) ben lontano dalla striscia costiera ove è sorta.Gl’inizi di questa letteratura appartengono agli ultimi decenni del Quattrocento e sono pressoché simultanei nel centro della regione, a Spalato e Lesina, e a Ragusa. Questa città prenderà un deciso sopravvento sulle altre città dalmate solo nella seconda metà del sec. XVI, e anzi i suoi primi poeti serbo-croati dipendono in parte, per ciò che riguarda il loro linguaggio, da una produzione poetica anteriore in dialetto čacavico, originaria di una zona più settentrionale.
Tra i due gruppi vi ha anche da principio una sensibile differenza quanto ai generi preferiti: mentre a Spalato l’autore di trattati latini Marco Marulo (1450-1524) compone in croato un poema religioso Fudita (1501) e a Lesina i due compagni Annibale Lucio (morto nel 1553) e Pietro Hettoreo (1487-1572) si dilettano, il primo a raccontare in forma drammatica le vicende romanzesche di una schiava (Robinja) d’illustre prosapia, il secondo a imitare nel suo Ribanje (Pesca, 1555) l’egloga pescatoria; a Ragusa Sigismondo Menze (1457-1527) e Giorgio Darsa (1461-1501) sono esclusivamente poeti lirici, imitatori, più o meno felici e fedeli, della poesia petrarchesca (il loro modello principale è Serafino Aquilano) e, in misura molto minore, della poesia popolare, italiana e serbo-croata.
Ma poi nei domini veneziani la vena poetica andò rapidamente esaurendosi; nel Cinquecento il territorio zaratino ha ancora un paio di poeti croati (primeggia fra essi Pietro Albioni, detto anche De Albis, in croato Zoranić, nato nel 1508, autore di un’opera pastorale Planine “Montagne”, ispirata all’Arcadia del Sannazzaro); la restante Dalmazia non ritroverà invece che a distanza di più di un secolo il gusto del poetare croato – ma sia Pietro Canavelli (1637-1719) curzolano e Girolamo Cavagnini (1640-1174) spalatino sia altri versificatori contemporanei, segnano, con la loro vuota prolissità, un regresso di fronte ai loro predecessori.
A Ragusa invece l’esempio di Darsa e Menze, un’innegabile predilezione per il poetare bilingue e un sempre vigile interessamento per i diversi generi letterari della letteratura italiana, hanno prodotto nel ‘500 e ‘600 non solo una discreta fioritura poetica in lingua serbo-croata, ma anche un ampliamento degli orizzonti letterari e un irrobustimento della tecnica. Nella sua briosa Fedupka (Zingara, 1527) l’orefice Andrea Čubranović (vissuto tra il 1480 e il 1530) segue con tocco felice i Canti carnascialeschi; il versatile, ma poco esperto, Mauro Vetrani tenta persino, sulle orme della Divina Commedia, un poema allegorico Piligrin (Pellegrino); Marino Darsa (1508-1567) eccelle soprattutto come autore di commedie alla maniera delle farse rusticali senesi, nelle quali piace ancora oggi l’uso spedito del parlare popolaresco e il senso realistico con cui porta sulle scene contadini dei dintorni della sua città natale.
Nel campo lirico – la poesia lirica è però coltivata da tutti questi scrittori – i poeti della seconda metà del sec. XVI Domenico Ragnina (morto nel 1607) e Domenico Zlatarić (1558-1609) apportano uno spirito più severo, educato, fra l’altro, alla scuola del Bembo; dello Zlatarić va rilevata anche la traduzione dell’Aminta, pubblicata qualche mese prima dell’originale.L’Aminta servì inoltre da modello al dramma pastorale Dubravka di Gianfrancesco Gondola (1589-1638) che per il suo capolavoro, il poema Osman, s’ispirò alla Gerusalemme Liberata. Ma tanto nel dramma, quanto nel poema, il Gondola sa battere vie proprie; nella forma, nel contenuto e negli ideali cui tende.
E non è privo di originalità uno dei migliori lirici ragusei, Giovanni Bona (1594-1658), anche se la grazia dei suoi versi deve non poco alla lirica del Chiabrera.Invece le numerose raffazzonature drammatiche di Giunio Palmotta (1606-1657) testimoniano il rapido declino della poesia serbo-croata di Ragusa che neanche la perizia tecnica e la serietà d’intenti di Ignazio Giorgi (1675-1737) ha potuto riportare al livello antico.
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