In memoria ad Antonio Gelsomino
Thursday, November 14, 2024

Gente di citta' - Convegno d'amore

incontro-ragazzi

Convegno d'amore

Il modo di fare della donna si rivelò, nei giorni che seguirono il primo incontro, sorprendente. L’uomo, che era abituato ad una grande superficialità di giudizio per presunzione e per un professato cinismo a cui era affidata la sua forza d’animo, dovette confessare a se stesso d’essersi sbagliato. Ora, quando la donna gli diceva: - Mario, Mario, - con una bambinesca voce implorante e gli piantava, nei suoi, gli occhi grigi e lunghi, sentiva dentro un intenerimento curioso, mai provato, e si scopriva una propensione improvvisa alla malinconia. Gli veniva l’impulso di prenderle il viso grassoccio e pallido tra le mani e di farle una carezza puerile; ma poi come accade spesso agli uomini del suo temperamento, vinceva l’ira e sbottava in parole di una ingiustificata violenza.

Spiegava alla ragazza la sua maniera di essere: lo faceva con una vanità altezzosa, piena di parole rudi, scelte con crudele lentezza.Gli accadeva anche, in questi momenti, di affrettare il passo con un’andatura più rigida del solito, per godersi la ciondolante e molle lentezza della donna che si abbandonava docilmente al suo braccio.

Eppure, quando il breve alterco era finito e il suo dominio sulla compagna gli pareva evidente, rallentava il passo e prendeva anche lui quella stanca andatura; la sua fittizia collera caduta, si sorprendeva ad ascoltare con interesse tutte le recriminazioni della ragazza seguendole nella loro incoerenza infantile.

La donna diceva: - Mario, Mario, - con un tono di una intimità antica a cui gli pareva impossibile sottrarsi; le sue malinconie, le sue stanchezze, il freddo improvviso che la prendeva, la fame, erano cose che nel modo come la donna le diceva pareva avessero una storia. E se lei voleva, riusciva a farlo sedere sulle panchine nei giardini pubblici e a comunicargli tutte le sue malinconie; a dire di sé, dei suoi sentimento, del suo passato, componendoglielo con piccoli sospiri, allusioni, velature di voce, alle quali involontariamente egli prestava molta attenzione.Se nella semioscurità che sopravviveva voleva tentare una rude carezza, trovava un improvviso impaccio in quella curiosa tenuità di tono che gli era penetrata nei nervi e che spingeva le sue grandi mani e raccogliere nel loro cavo la piccola di lei, tremante.Tutto si svolgeva secondo una successione di piccoli avvenimenti che egli non aveva saputo prevedere: l’incontro per la strada, il primo, con quel saettare improvviso di sguardi ammiccanti, maliziosi, la mollezza che gli era parsa lasciva della sua lenta andatura, il consenso rapido alla proposta di un altro incontro, gli avevano fatto prevedere uno scioglimento rapido dell’avventura.

E invece ora, da più giorni, passeggiavano amaramente; lungo  il fiume lui guardava il tramonto come faceva lei, ed i passanti e le insegne dei negozi, ed era costretto a seguirla in questa strana maniera di  compitare lo spazio e la gente, e a scegliere le parole per risponderle perché comprendeva che, quelle che avrebbe dette seguendo il suo impulso, non sarebbero state adatte. Quando si sedevano nei caffè, lei sceglieva l’angolo più remoto e passava molto tempo muta con gli occhi svagati e lontani che in questo fantasticare le si ingrandivano fino ad invadere tutta l’orbita; la bocca semiaperta si gonfiava sotto il breve alito e si arrossava come un frutto. Allora lui comprendeva che doveva andarsene, che tra loro due non c’era nessun rapporto necessario; ingoiava il suo liquore di un colpo e chiamava il cameriere per farsi servire ancora; si ergeva sul busto gonfiando i muscoli del petto e passandosi la mano sul magro mento duro di peli corti e folti; una specie di richiamo alla sua vigoria di maschio sbrigativo e volontario.
Cercava, guardandola, una frase, una parola che valesse a richiamare la donna assorta, al suo disagio che gli pareva via via si mutasse in collera; ma non trovava nulla ed era lei a guardarlo all’improvviso ed a parlargli con fatua gaiezza.

La donna parlava sempre di se stessa col solito tono smozzicato e puerile che aveva in sé un che di evidente, sincero, di ordine tutto fisico: ma egli dubitava che al donna mentisse con un’abilità disincantata, che si prendesse gioco di lui, e pensava dentro di sé: “trappole, trappole, le solite trappole”; riprendeva il sopravvento e  appena in istrada  le rovesciava addosso un diluvio di parole violente e la lasciava a piangere nel buio tra la nebbiolina autunnale del lungofiume, stupito che la voce della donna, pure tenuissima, potesse giungergli nell’orecchio a tanta distanza.
Quando l’uomo era solo a casa, pensava fermissimamente che il giorno seguente partirebbe. Doveva partire: in quella città doveva  rimanere soltanto pochi giorni: ora, preso in queste panie, aveva tutto trascurato, tutto mandato a onte; sul tavolo c’erano sparse le carte del suo itinerario; le valigie in un angolo non aspettavano che di essere chiuse. Prenderebbe il treno al mattino seguente; c’erano pochi gesti da fare per mettere in atto la decisione; eppure non aveva la forza di compierli. Strano, ma quando era solo, era preso da un’insolita pigrizia meditativa.

La mente gi andava alla donna che conosceva da pochissimi giorni, di cui on gli era possibile ricordare tutto il corpo, o precisamente le forme del viso: dentro si presentavano alla memoria i pochi capelli biondi e lisci che si vedevano oltre il cappellino, un pezzo del bavero del cappotto orlato di pelliccia a buon mercato, quella maniera goffa di camminare  ciondolando e forse quella sua malinconica voce. “Brutta, brutta; è una donna brutta; domani me ne vado”. Ma non partì; al mattino, anzi, alzandosi si prefisse di concludere; si trovò sgombro dalle esitazioni dei giorni precedenti, telefonò ad un amico per avere un indirizzo e attese ai suoi affari con al necessaria, rapida energia.Nel pomeriggio, incontrandola, la trovò, contro ogni sua aspettativa, molto remissiva: accettò la proposta di andare a vedere il  luogo del loro convegno, con docilità rassegnata: né disse nulla attraversando alcuni lerci vicoli della città vecchia in cui la poca luce moriva, intristita, sui muri umidi.

Salendo l’ampia scala del vecchio palazzo, si appoggiava al suo braccio pesantemente, come per opporre una involontaria resistenza; ma se egli la guardava negli occhi ella implorava di non arrabbiarsi, di non essere scortese. La padrona aprì e s’incamminò verso il suo angolo dell’atrio senza guardarli; volte loro le spalle, precedé lentamente appoggiandosi ai muri con evidente stento e dolore; il cagnolino la seguiva lentissimo a passi lunghi e radi come quelli della padrona. Raggiunse la poltrona di legno scuro, si sedette, si aggiustò con pudico gesto le lunghe vesti intorno alle ginocchia dolenti; poi fece un cenno al cane che attendeva immobile e che con un balzo esatto le montò in grembo.

Ella ebbe un piccolo riso silenzioso; e poi levò verso i due il suo viso pallido e sofferente, disse con voce dolcissima ma distante, una voce che non le apparteneva, che non metteva alcuna attenzione sulle sillabe che pronunciava:
-    Vi manda il signor Testa! Bene. Siete sposi; mi ha detto che siete sposi; è bellissimo.
L’uomo stava per dirle che non lo aveva mandato il signor Testa, che lui non conosceva nessuno che si chiamasse Testa: ma poi aderì invece all’invito della donna che indicava loro la camera a destra che aveva l’uscio semiaperto: lei non poteva muoversi. Chiese scusa con un altro pallido sorriso gentile e poi si murò nel suo incantata silenzio.
L’uomo, quando furono nella camera, tentò di abbracciare la ragazza ma quella si sottrasse dicendogli:
-    Lasciami guardare, - e si muoveva per la camera toccando la stoffa delle poltrone damascate e i ninnoli di creta dipinta del cassettone: - ora andiamo, - disse, - ritorneremo; vero? – e tentò di sorridergli.
Fu la prima ad uscire; passando, accennò un inchino alla padrona che forse non la vide.
L’uomo rimase indietro a barattare qualche parola d’intesa.

Tornarono dopo due giorni; si incontrarono di primo pomeriggio e si avviarono lietamente verso il luogo di convegno. Lui era contento che la donna fosse venuta: da quando la conosceva temeva sempre le ineguaglianze tristi del suo umore. Gli era parso poi, due giorni prima, che lei avesse ricevuto una sgradevole impressione del luogo dove avevano trovato il nido del loro amore. Ma le sue apprensioni si dimostrarono vane, tanto gli sembrò schietta la gaiezza della donna che forse, rinvigorita dall’aria tiepida e luminosa, aveva un passo più agile e fermo. Per le scale lo pregò di rallentare il passo, dichiarò di aver freddo e rimpianse con mite sorriso il solicello della strada. Lui non aveva voglia di irritarsi e non nascondeva la sua impazienza che forse non aveva nulla di gioioso. La fretta gli fece commettere l’errore di scambiare le chiavi, perché quella che ora provava sulla toppa non apriva. – Devo essermi sbagliato, - disse fra i denti. Si udì improvviso l’uggiolio lamentoso del cane che era nell’interno. Poi, sotto la pressione che incominciava ad essere irosa, la porta si spalancò. Il cane scomparve guaendo nel buio corridoio a destra. La poltrona della padrona era vuota: caduta la breve eco della porta violentemente chiusa, non si udì più nulla. La casa pareva deserta. La ragazza levò la testa con aria inquieta, come avesse voluto sentire, col fiuto, la solitudine.

Lui la spinse nella camera e voleva chiudere la porta. Lei, che si era buttata affranta su una poltrona, gli disse:
-    No, ti prego, non ancora -. Mario fece alcuni passi nella stanza e disse:
-    Stanca, eh! – e rise rumorosamente. Poi si avvicinò alla ragazza e le mise le mani sulle spalle: ma lei lo respinse con un gesto deciso senza guardarlo, pareva che la sua attenzione fosse altrove.
L’uomo fece:
-    Che c’è? – e si capiva che la sua sorda irritazione cresceva.
La donna non rispose. Allora l’uomo tacque e percepì anche lui, lontanissima, la voce piangente del cane; poi se ne udirono le pedate rapide attraverso l’atrio; e il lamento riprese a sinistra  più prossimo; poi si allontanò ancora.
Lui le si avvicinò a la battè leggermente sulle guance paffute e pallide dicendole:
-    Su, su!
Il cane ripassò ancora abbaiando tristemente; per un attimo la voce scomparve per riprendere lontana.
La donna si alzò di scatto e disse con le labbra tremanti:
-    Le è morta, andiamo via; lei è morta.
Lui tentò di persuaderla prima, con parole di goffa puerilità; poi la volle costringere a rimanere; ma la donna tremava e lo supplicava di lasciarla.
Mario allora chiuse la porta d’ingresso della camera, ma lei corse a un altro uscio che comunicava con la camera accanto; le riuscì di aprirlo e scomparve.
Lui la seguì sibilando tra i denti:
-    Stupida, stupida.

Ma non gli riuscì subito di raggiungerla; la udì difendersi dal cane che ora ringhiava rabbioso tentando di morderla. La ritrovò all’ingresso con gli occhi dilatati dal terrore, seguita dal piccolo cane furente che, in presenza dell’uomo, parve calmarsi. Il cane fece alcuni giri inquieti a<annusando, come se seguisse una pista; poi ebbe un balzo contro la porta con un guaito lacerante. L’uscio si aprì e la padrona comparve; entrò con passo doloroso e stecchito. Mario non si accorse del momento in cui la ragazza era fuggita e nella strada per quanto la cercasse non gli riuscì di ritrovarla.

Francesco Jovine 

R a c c o n t i ,
casa ed. G. Einaudi ,
finito di stampare il 14 ottobre 1967
dall'Officina Grafica Artigiana Panelli - TORINO

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