Gli esami di Fernanda
L’impressione di tepore avuta entrando nell’atrio della scuola le fece all’improvviso sentire tutto il peso della sua carne. Fuori la tramontana pungente della serena giornata di marzo l’aveva costretta a serrarsi ai fianchi la pelliccia e a camminar spedita come una persona, magra che vada frettolosamente per i suoi affari.La rapidità del moto e quell’inatteso tepore la indussero ad aprire il mantello e la sua carne tenera traboccò dallo scollo. Fermandosi per darsi un contegno, senza volerlo, si mise una mano sul fianco ed ebbe un movimento automatico dell’anca.
Il portiere che stava leggendo il giornale si tolse lentamente gli occhiali, uscì dalla guardiola e le si avvicinò per chiederle che cosa volesse.Fernanda fece la sua domanda con intenzione gentile ma le venne fuori la solita voce grave e roca che si trovò ad ascoltare come se l’udisse per la prima volta.
Le parve tanto estranea e così inadatta al luogo così calmo e lucido che ripetè la sua domanda con altro tono; ma era già tanto irritata con se stessa che la stizza trasparì involontaria dalle sue parole.Salì la breve scala di marmo tentando di raccogliersi le vesti con la destra per non farle strusciare; aveva dimenticato di avere le vesti corte. La destra che penzolava inutile lungo il fianco le montò ai capelli con un gesto di inutile civetteria.Quando fu entrata si accorse che il direttore l’aveva appena guardata, le aveva fatto solo un piccolo cenno perché si sedesse. Stava telefonando; parlava con voce pacata, lenta, ogni tanto guardava un mucchio di carte che aveva sul tavolo9 e dettava, spiccando chiarissimamente le sillabe dei nomi.
Fernanda s’era seduta su una sedia alta e rigida che la costringeva a sporgere il grosso busto; la veste le era montata oltre il ginocchio e le gambe grosse, troppo corte, penzolavano.La pelliccia che le aveva prestato Lola, nel calore della stanza, s’era messa ad odorare. Ebbe voglia di togliersela e di nasconderla; aprì la borsa per cercare il fazzoletto e le sue mani indugiarono automaticamente sull’astuccio delle sigarette.Il direttore in quel momento la guardò con i suoi occhi patiti di uomo serio e stanco e le inchiodò la mano sull’astuccio. Quando si voltò, Fernanda gli fece, non vista, uno sberleffo puerile. Poi disse fra i denti: - Mummia.
All’improvviso il direttore si voltò e prese a interrogarla. La sorprese con una caramella in bocca; la stava succhiando con un’aria che a lei pareva spavalda.Rispose barbugliando alcune parole incomprensibili e poi tentò d’inghiottire la caramella. Strabuzzò gli occhi ed ebbe una tossetta stizzosa che tentò invano di frenare.
- Voi così non potete parlare, - le disse con un bonario sorriso il direttore.
Fernarda cercò a furia il fazzoletto nella borsa e vi sputò la caramella che le sfuggì di mano e cadde sul pavimento con un piccolo suono vitreo. Volle chinarsi per raccoglierla ma il seno tenero le traboccava dallo scollo. Sotto lo sguardo leggermente ironico del direttore si raddrizzò di colpo come se glielo avesse ordinato.Rimase puerilmente mortificata e incominciò a parlare con voce umile, da mendicante.
Le veniva un discorso rotto, ingarbugliato, che forse il suo interlocutore non capiva.Tentò di spiegarsi, alzò la voce, si fece forza per accavallare le gambe e darsi un contegno mondano; si mise la mano inanellata sotto il mento e disse:
- Non ci vuol molto per capire; com’è che voi non capite?
L’altro le fece cenno di tacere e le disse:
- Voi avete un figlio e non avete marito!
- Mi aveva promesso di sposarmi; ha mancato di parola; lui forse veramente voleva, ma la famiglia … Vigliacchi.
- Capisco, la famiglia; sono cose che accadono. Voi, poi, avete fatto una certa vita; ora il bimbo è grande e voi vorreste averlo per voi o almeno vederlo spesso. Non vogliamo permettervelo, per le ragioni che sapete. Vi consigliano di fare un esame per avere un diplomino e cercarvi un posto. Ve l’hanno già trovato? Bene. Vi farò l’esame.
Era chiarissimo, aveva perfettamente capito; tutto ordinato, liscio, calmo. Apriva la bocca e parlava scorrevole, uguale come se avesse dentro una fonte inesauribile di parole e di pensieri esatti.Ora che lo guardava così attenta trovò che il direttore somigliava a Pallino, quello che andava da Flora.
Il direttore uscì pregandola di attendere un istante; Fernanda si sentì come improvvisamente liberata da un castigo e si alzò cautamente. Tese gli orecchi; quando sentì il rumore dei passi del direttore perdersi nel corridoio si mise a canterellare; si avvicinò a una finestra e la spalancò. Respirò profondo e le piacquero il cielo azzurro e la lama di sole che tagliava nettamente il cortile in due; nessun rumore; la scuola sembrava disabitata.
Ma all’improvviso uno squillo balzò nel silenzio, lungo, allegro, libero. Fernanda si mise in ascolto. Altri squilli seguirono, più deboli, lontani, come se andassero umilmente incontro al primo che riprese più alto, giubilante. Seguì un tumulto di voci acute, ridenti; uno sbattere di usci, un moto di panche smosse, un confuso, minuto calpestio di passi. La scuola prima così rigida ed estranea si mise a vibrare come un grande organo; pareva l’inizio di una festa per un avvenimento improvviso mandato dal cielo di primavera.
Fernanda si mosse con una corsetta puerile perché voleva andare a vedere. Ora Fernanda si trovava sola in un’aula vuota, seduta a un tavolino con alcuni fogli di carta bianca, per fare i compiti.Durante i primi minuti aveva seguito, senza volerlo, i gai rumori dei ragazzi che giocavano, provocandone un calmo piacere; le pareva di essersi appartata volontariamente da una festa perché altri ne godesse più liberamente. Il ritratto del suo bambino che aveva fatto vedere al direttore le era rimasto in mano; se lo cacciò in tasca e si propose di fare quello che le avevano chiesto.Lesse il problema che le avevano assegnato e s’accorse che non sarebbe stata capace di risolverlo. Questo le diede un’improvvisa gaiezza; come se si trattasse d’inventare una marachella per sfuggire a un castigo che sentiva di meritare.Continuava il rumore festoso, ma più uguale e calmo. Fernanda aveva il capo su una mano e gli occhi perduti nel pulviscolo dorato vibrante nel sole che aveva inondato la stanza; era l’attitudine sognante di una bimba che forse attende il volo di una mosca o di una farfalla per uscire dal suo incanto.A un tratto s’udì ancora uno squillo di campanello, breve, perentorio; mozzò l’allegro rumore, nettamente, in un attimo. Tutto tornò quieto e operoso. Fernanda si raddrizzò e tentò di riprendere il suo lavoro. Trascrisse e cifre e poi si mise a mordicchiare la penna. Passavano i minuti; il silenzio l’aveva rifatta solitaria ed estranea.
La pelliccia di Lola accovacciava su una seggiola si godeva il sole,e odorava di muschio e di carne come una bestia viva.Fernanda si alzò e incominciò a passeggiare per la stanza; la sua cerne senza gli sguardi cupidi degli uomini che ordinariamente la sostenevano, non le pareva più sua; si passò le mani sui fianchi e si sentì enorme; le pareva impossibile di poter fare quello che si era proposto. Le tornò in mente l’idea che doveva, dopo l’esame, andare a far l’infermiera in un ospedale.
“All’ospedale ci son tutti malati stanchi”, si disse.
E per un momento si sentì terribilmente debole per tutta la fatica che le chiedevano. Fece con tutt’e due la mani un gesto di ribellione sprezzante e accese una sigaretta. Fumò a grandi boccate con una sfida evidente; fece per prendere la pelliccia, infilarsela e andarsene.Ma un rumore di passi alle sue spalle le diede un panico improvviso e tornò a precipizio al suo posto.Rimase per qualche attimo con le orecchie tese, la penna in mano, mentre col piede schiacciava la sigaretta appena accesa. Non udì più nulla; ma non ebbe voglia di rialzarsi e di ripetere il gesto; forse attendeva che la scacciassero.Le sarebbe piaciuto se l’avessero mandata via urlando delle ingiurie; avrebbe risposto urlando.
Dietro la porta socchiusa che aveva di fronte le arrivò d’un tratto un calpestio minuto di passetti esitanti come d’un branchetto di agnelli. Una voce di donna, doveva avere un dito minaccioso sulle labbra, imponeva il silenzio. Una manina spinse l’uscio e un bimbo vestito di bianco entrò. Fece alcuni passi nella stanza poi si fermò deluso. Disse a Fernanda, che s’era messa a guardarlo con una trepidazione che le faceva tremare il cuore:
- Tu non sei, - e fece per andarsene.
La donna protese le mani e incominciò a chiamarlo teneramente; poi cercò ansiosa nella borsa e ne estrasse un pugno di caramelle. Se le mise sulle palme aperte e gliele veniva offrendo con parole dolcissime. Il bimbo si avvicinò, si riempì le manine di dolci, poi la guardò sorpreso e affermò con sicurezza:
- Tu sei più bella.
Fernanda ebbe un riso goloso, sordo e si attirò il bimbo sulle ginocchia. Questi si svincolò furioso:
- Devo andare, ora.
Lei lo teneva stretto e il bambino si spazientì, e incominciò prima ad annaspare con le mani poi a picchiarla rabbioso sul petto.
Il vestito s’era aperto e il bimbo batteva violento sul seno nudo. La donna aveva chiuso gli occhi e piangeva.
Francesco Jovine
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