UN UOMO PROVVISORIO
E’ dunque un periodo di ricerca quello cui appartiene la vera opera prima. Il romanzo Un uomo provvisorio, che contiene caratteristiche, tendenze polemiche e difetti analoghi alla commedia e risulta essere la sofferta testimonianza di una crisi stilistica e ideologica molto significativa per la storia dello scrittore. Jovine continua e a suo modo conclude la polemica contro un tipo di letteratura intellettualistica, sofistizzante ed ermetica, negli stessi anni in cui viene elaborando una poetica ispirata alla realtà, alla sincerità, alla spontaneità.
“Ed essere spontanei non è stato di grazia ma conquista durissima” (F. Jovine, Creare il tempo in Cronaca prealpina, 15 febbraio 1934).
Perciò la sua posizione è quella di un autore che si riflette nel protagonista del romanzo e nel contempo lo giudica, con il filtro del tono ironico. Si tratta di una crisi più vasta, non solo individuale, come dimostrano altri esempi: Rubè di G.A. Borghese (’21), L’uomo nel labirinto di C. Alvaro (’22), Gli indifferenti di A. Moravia (’29).
La vicenda narrativa è piuttosto esile e la trama vera e propria ha un rilievo secondario.
Giulio Sabò, il protagonista, è un medico ventottenne ritornato a Roma, dal nativo Molise, per specializzarsi in neurologia ma, più che studiare, partecipa alla vita mondana della metropoli, passa da un’avventura amorosa all’altra, e consuma le giornate a ruminare pensieri. Comincia a sofisticare sul mondo che lo circonda e a vivisezionare le sue esperienze quotidiane per cui cade nell’indifferenza e nella noia.
E’ un antieroe, un “uomo provvisorio”, un “uomo senza qualità”, il cui dramma, solo verbale, non ha concrete ragioni per sussistere, dato che è un giovane comune, con una vita abbastanza facile.
Nella seconda parte del romanzo avviene la catarsi, per un fatto imprevisto e non voluto. Alla notizia della morte del padre, Sabò è costretto a tornare al paese d’origine, ove inizia il riscatto dalla perdizione cittadina e intravede dei motivi validi per sentirsi vivo: si rende utile come medico salvando un giovane contadino, e scopre ricchezza morale nell’amore di Iolanda, una sua cugina. Capisce che deve “restituire il cervello alla terra” se vuole trovare uno scopo all’esistere.
Nelle ultime pagine si avverte già la posizione morale di Jovine, ci sono i preannunci di quella problematica “meridionale” che d’ora in poi impegnerà la sua ricerca artistica: l’antitesi città-provincia, lo sradicamento generato dalla città nel provinciale, il problema della terra molisana.
E la terra che “salva” non è quella dei “galantuomini” bensì quella dei “cafoni”, la terra “indocile, dura, che ha insegnato a quelli che le chiedono la vita una diffidenza amara, una chiusa malinconia, una parsimonia crudele” (F. Jovine, Un uomo provvisorio, Marinelli, Isernia, 1982, p. 138).
Il romanzo pecca di prolissità, di sovrabbondanza dialettica, per cui rischia di diluire troppo quello che voleva esserne il sapore: l’implicito invito a tornare “alla terra”, alla spontaneità, a liberarsi dal cerebralismo che isola e fa perdere il senso della vita; più che sotto il profilo documentario e ideologico, risulta immaturo sul piano artistico.
Il dilettantismo, la mancanza di distacco narrativo costituiscono un peso nello stile, sia che Jovine riecheggi altri autori (Verga, D’Annunzio, Pirandello) sia che tenti di rinnovare le forme espressive.
Francesco D’Episcopo, molisano ed appassionato studioso dell’illustre conterraneo, nel 1982 ha curato una nuova edizione di Un uomo provvisorio (Marinelli, Isernia, op. cit.) ed ha pubblicato una monografia sul romanzo (Un uomo provvisorio: Francesco Jovine, Marinelli, Isernia).
Sia pur per cenni sommari, è utile soffermarsi su tale complesso e originale scavo interpretativo.
Un uomo provvisorio contiene le “radici” della molteplice esperienza letteraria di Jovine, si profila come opera critica, anzi autocritica, con la quale egli tenta di riordinare la propria cultura e la propria coscienza.
Ogni personaggio del romanzo costituisce una denuncia delle varie “avanguardie” letterarie, teatrali, artistiche del ’900: il decadentismo dannunziano, lo sperimentalismo dei crepuscolari e dei futuristi, il calligrafismo, ecc.
Giulio Sabò personifica un conflitto moderno e drammatico, la “inflazione dell’intelligenza” ai danni della vita. La “fantasia”, nel momento in cui anticipa, rappresenta e apre al personaggio orizzonti illimitati, rischia di dannarlo, poiché il potere che Sabò accumula nel cervello va a scapito della spontanea vita del cuore. Pertanto “lo sforzo che Giulio deve compiere per partorire dai lussi del cervello la semplicità del cuore è immane”.
Giulio non è uomo “finito” ma solo “provvisorio”, perché ha l’ansia nascosta e pur tenace di sollevarsi dalla perdizione alla salvezza, cioè dalla presunzione all’amore, e alla fine della sua vicenda riuscirà a ritrovare “la propria autonomia intellettuale e verbale” con il viaggio nel Molise, con il ritorno alle radici, alla terra.
Jovine instaura con il personaggio un duplice legame: autobiografico e critico allo stesso tempo.
Quindi – conclude D’Episcopo – se in genere Un uomo provvisorio è stato definito romanzo neo-decadente, occorre invertire il giudizio e valutarlo un romanzo “criticamente” anti-decadente.
Immagine:morguefile
Tratto da:
Francesco Jovine
Redatto a cura di: Anna Maria Sciarretta Colombo
Con la collaborazione di: Miranda Jovine Tortora
Della F.I.D.A.P.A (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari) Sezione di Termoli (CB).
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