Prassi di specifico discrimine sessuale
Anno 2008_04 Novembre
Il 4 Novembre, la LIDU, inorridita dalla sorte inumana d’una giovane somala di Kisimaio, località del Corno d’Africa, alla quale, in quanto accusata d’adulterio, era stata inflitta, da manifesti seguaci di Al Qaeda, la pena crudele della lapidazione, prescindendo da qualsivoglia valutazione in merito al fatto di considerare o meno l’adulterio della sola donna come colpa grave da stigmatizzare e punire, prende posizione netta ed inequivocabile contro una prassi, tanto disumana quanto iniqua e sanguinaria. Prassi di specifico discrimine sessuale, che, non solo ripropone forme di giustizia sommaria quanto barbara che si perdono nella notte dei tempi, ma che impone, proprio per questo, al confronto con la società occidentale, la formulazione di giudizi, inequivocabili, di patente inciviltà dei diversi consessi di matrice islamica od islamista in cui la legge della Sharia abbia finito per prevalere.
Ci ribolle il sangue a ripensare alla povera ragazza somala lapidata, per adulterio, dai seguaci di Al Qaeda, a Kisimaio, nel “Corno d’Africa”.
Non ci sono parole per descrivere l’orrore che suscita questo bestiale tipo di esecuzione, forse il più barbaro che mai sia stato “inventato” dall’uomo. Un’esecuzione che solo una mente malata poteva concepire nella sua assoluta efferatezza. Un’esecuzione che ci riporta con la memoria ai roghi, alle torture, agli sventramenti, agli squartamenti ed a tutte le altre più feroci sevizie del Medioevo e della Santa (si fa per dire) Inquisizione. Barbara, perché, a prescindere dal fatto che, sempre e comunque, la pena di morte è un atto esecrando, l’irrogazione di questa pena poggia su un reato (l’adulterio), fatto, tra l’altro, valere esclusivamente contro la “femmina”, nettamente in contrasto con due fra i principi base in cui si sostanziano i Diritti dell’Uomo, ovvero la libera disponibilità della propria persona e del proprio corpo e l’eguaglianza assoluta tra uomo e donna, cui, ipocritamente, sembrano rifarsi, almeno nelle dichiarazioni universali sottoscritte, anche i Paesi di cultura islamica.
Barbara, perché il rituale della pena, prima, durante e dopo l’esecuzione, costituisce una vera e propria infamia nei confronti anche solo di un minimo di rispetto della personalità della vittima, dei familiari e degli stessi spettatori, d’ogni età, costretti ad assistervi, loro malgrado, perché la pubblica esecuzione fosse monito per tutti. Di più, questo gesto esecrando ed infame é solo l’ultimo di una serie ininterrotta che, da anni ed anni, anzi, da sempre, insanguina e connota di assoluta inciviltà morale e materiale molte e molte aree di questo nostro mondo; aree in cui sono insediate comunità, per lo più disperate, in cui non esiste giustizia sociale e politica, in cui neppure la parvenza della Democrazia ha speranza di attecchire, in cui i contrasti e le divisioni sociali sono tali che mentre, da una parte, imperano caste di veri e propri satrapi, che fanno, ad esempio, alla stregua di Federico II di Svevia, della falconeria, della spettacolarità delle esibizioni, dei costi e del trattamento anche affettivo dei volatili, ragione di vanto e simbolo di acquisito od ereditato lignaggio, dall’altra, di fatto, sopravvivono ancora schiavitù e servitù della gleba, su cui, spesso e volentieri, viene, addirittura, esercitato potere di vita e di morte.
Anche se ci assale il dubbio di mancare, in un certo senso, di rispetto alla memoria della giovane somala, non possiamo non accennare a come sia stata barbaramente uccisa: predisposta una buca profonda (anche se noi riteniamo la cosa assai verosimile, le cronache non dicono se la stessa vittima sia stata costretta a scavarla), vi è stata introdotta fino a far emergere dal suolo la sola testa; dopo che, per pietà (ma se così è stato, a nostro parere s’è aggiunta solo ignominia ad ignominia), le è stato messo sul capo un velo che le cingesse il volto e le coprisse gli occhi, ad un ordine della sbirraglia di Al Qaeda, è cominciato il lancio delle pietre.
Per ben tre volte, onde constatarne la morte, la poverina è stata estratta dalla buca e per tre volte vi è stata reintrodotta.
Nel frattempo, poiché i familiari cercavano di soccorrerla, gli aguzzini hanno sparato, come si usa dire, nel “mucchio”, uccidendo ancora una donna, una bambina.
A questo punto ci sorgono spontanee alcune domande. Perché mai l’Italia, che, non ostante la guerra perduta, il 1° Aprile 1950, ottenne dall’ONU, per meriti di buona colonizzazione (così, almeno, diceva allora la propaganda di governo, chiaramente tesa a sottacere i molteplici atti di barbarie e di gratuita ferocia compiuti, dal Fascismo, in Nord Africa, e ad esaltarne, di converso, la buona amministrazione e la realizzazione di utili infrastrutture; tutte cose che andrebbero, comunque, ben verificate alla luce delle rivendicazioni di Gheddafi e dell’accordo sui “risarcimenti”), l’Amministrazione Fiduciaria della Somalia (solo il 1° Luglio 1960, questa acquisì la piena indipendenza), non si sente coinvolta da tragedie di questa natura? Tragedie che avvengono in contesti di cui l’Italia fu, appunto, almeno fino al 1960, egemone?
Egemone e protagonista al punto che non solo vi profuse, allo scopo di creare una vera e propria nazione civile, risorse a piene mani, ma, addirittura, mise a disposizione le proprie accademie (anche di volo), le proprie scuole di guerra e le propri università.
Che cosa pensa di fare per questa sciagurata nazione, ormai disintegrata come Stato, nonché letteralmente alla fame, il nostro Paese, al di là di mandare sporadicamente qualche contingente militare che, considerata la scarsità di mezzi, diventa immancabilmente bersaglio di attentati, alla stregua di quel che può accadere, ed è purtroppo accaduto, a qualche nostro coraggioso giornalista?
Cosa mai pensa di fare il nostro Paese, protagonista, in sede ONU, della proclamata sospensione della pena di morte, che continua, invece, ad essere praticata per ogni dove, sia da stati che hanno votato l’intesa per la moratoria (approvata a maggioranza), sia da Stati che l’hanno “rigettata”?
Non a caso, ci troviamo a constatare che, a parte le diverse realtà territoriali, preda di questa o quella fazione politico-religiosa, dove, alla maniera tribale, praticamente senza interventi militari di contrasto, determinati, organizzati ed armati secondo quanto obiettivamente imporrebbero le diverse “condizioni” sul campo, ognuno continuerà a fare il proprio comodo ed ad esercitare ogni forma di prevaricazione e d’arbitrio, siamo al cospetto di esecuzioni capitali compiute dalle due Cine, dal Giappone, dall’Iran (che, oltre al taglio degli arti per reati, secondo le nostre leggi, sostanzialmente secondari, prevede anche la sola omosessualità quale colpa bastevole a “guadagnarsi” la pena di morte per impiccagione) e da altri stati sparsi per il mondo, di diversa connotazione politico-religiosa, ancorché a prevalenza islamica.
Ebbene, che cosa intende fare in merito il nostro Paese? S’accontenta, velleitariamente, di esprimere condanna morale, inviare note di protesta, additare al resto delle comunità internazionali la nostra specifica cultura della vita e dell’intangibilità della persona che, per primo, il Beccaria, nel secolo dei lumi, “conquistò” al nostro Paese? Paese che, però, non ostante questa assai meritevole “primazialità” morale, ci vede ancora privi di una legge specifica contro la tortura (pochi hanno fatto attenzione, tra i mass-media, al fatto che, in merito alle condanne con cui si è chiuso il processo per i “fatti” della caserma “Bolzaneto” e della scuola “Armando Diaz” di Genova, ancorché il Pubblico Ministero avesse additato alla giuria, perché fossero punite esemplarmente, sevizie e torture “praticate” dalle forze dell’ordine, questa, nella sentenza, ha dovuto fare riferimento ad atti d’incolpazione meno gravi, dando così luogo ad una derubricazione, di fatto, dei reati compiuti).
In verità, con alcune culture e con alcuni modi di vivere di popolazioni di altra fede d’origine e di altri costumi politici, in merito a fatti fondamentali che costituiscono la struttura portante di una società, “colloquiare” e collaborare nel senso più ampio, senza dissimulare differenze e contrasti, è difficile, anzi estremamente difficile. Infatti, riuscire a trovare occasioni d’incontro su problemi quali, appunto, l’abolizione della pena di morte, la parità di diritti fra uomo e donna, l’eliminazione delle caste (non tanto di quelle economicamente intese, bensì di quelle provenienti dal diverso credo religioso e dalle diverse etnie o razze), la cessazione d’ogni integralismo, al limite del fondamentalismo e del millenarismo, le pratiche di mutilazione genitale etc., sembra essere pura illusione.
Se tanto ci dà tanto, dal momento che, purtroppo, non esiste un luogo dove “Buon giorno! voglia dire veramente Buon giorno!” (come “recitava” la voce di fondo, alla fine del film di De Sica e Zavattini, “Miracolo a Milano”, quando i barboni e i bambini, a cavallo di scope da spazzino s’involavano per un destino migliore), dove Giustizia significhi Giustizia per tutti, dove Libertà ed Uguaglianza significhino, per tutti, Libertà ed Uguaglianza, dove Democrazia significhi Democrazia per tutti, a nostro modesto parere, vivremo presto periodi di grave periglio, tempeste sociali e non solo di carattere economico.
Forse vere e proprie rivoluzioni, anche cruente, conflitti gravi e profondi di popolazioni contro altre popolazioni, di etnie contro altre etnie, con il mondo letteralmente “spaccato” in più parti. Per essere indotti a queste amare considerazioni è bastevole anche soltanto riflettere sul fatto che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’ONU, seppure promulgata solennemente nel 1948, per ricevere “accoglienza”, quantomeno informale, nelle più diverse parti del mondo, ha dovuto, a livello continentale ed, in qualche caso, addirittura a livello sub continentale, subire modificazioni ed accettare preamboli tali per cui non esiste più un testo unico.
Questo, perché, per alcune aree di riferimento, la validità e la reale vigenza dei valori universali è subordinata al credo religioso.
L’anacronismo di questa condizione è di tutta evidenza anche solo a pensare quali uniformità applicative, rispetto alla loro solenne promulgazione, possano avere i Diritti Universali dell’Uomo là dove, la Sharia, è contestualmente postulato di fede ed, in quanto tale, legge fondamentale dello Stato.
Mutatis mutandis, trattasi, per certi versi, della conferma fattuale, anche se a valori ribaltati, della formula medioevale, cui i sudditi di un consesso statuale dovevano sottostare, ovvero quella del cuius regio eius religio, che dette luogo alle guerre di religione, agli scismi, alle eresie, alle stragi e, nella pratica della peggiore barbarie, all’annientamento d’intere progenie, allo spopolamento ed all’immiserimento d’interi territori (vedasi, al riguardo, la vicenda relativa allo sterminio dei Catari in Provenza), assieme a carestie e peste.
Ad adiuvandum, lungo la china di questa nostre considerazioni, possiamo portare un prova diretta di quanto sia difficile intendersi, quando, tra esponenti di religioni diverse, si passi dalla “lettera” delle parole a ciò che queste significano effettivamente in termini di prassi comportamentale. La Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, l’anno scorso, indisse e “celebrò” un ambizioso convegno, sostanzialmente centrato sulla “ricerca di un linguaggio comune” tra le diverse fedi ed etnie. Ebbene, ancorché il convegno sia, per così dire, “riuscito”, grazie ai dotti relatori, tutti professori universitari di storia, filologia, scienza delle dottrine religiose etc., di diversa cultura e credo, ci è parso che, non ostanti i molteplici sforzi di volontà prodotti per cercare d’intendere in modo univoco i valori della Libertà, della Democrazia e dell’Uguaglianza, si siano evidenziate “distanze” sostanzialmente incolmabili nell’interpretazione e nella valutazione “autentica” di questi “fondamentali” della civiltà.
Distanze irriducibili allorché è emerso, come insuperabile, lo iato costituito, non tanto dalle divaricazioni tra religione e religione, tutte, per altro, strettamente monoteiste, quanto dal fatto che il credo religioso, costituisce, talvolta, il fulcro delle leggi dello stato, ovvero, più in piccolo, crea, comunque, “forzature” e situazioni di chiaro discrimine, tendenti ad “informare” il convivere civile al punto da spogliarlo della legittima laicità che dovrebbe, invece, contraddistinguere ogni moderno e sovrano consesso internazionale.
Insomma, ci è parso di capire che, nel momento in cui la religione, ancorché fenomeno spirituale di grande attualità sociale, esce dalla sfera della coscienza individuale, ove, in quanto fatto strettamente privato, può ben influenzare il modo d’essere della persona, per diventare norma positiva, impositiva di regole e comportamenti generali, finisce per trasformarsi in atto di indebita ingerenza, egemonia e prevaricazione.
Atto senz’altro da contrastare, anche perché la fede, in quanto afferente la coscienza individuale, ovvero, il “foro interno” della persona, non costituisce affatto prova scientificamente riscontrabile.
Alla fine di queste nostre “inquiete” considerazioni, crediamo che, intanto, in attesa di tempi migliori che, lo ripetiamo, non sono, a nostro parere, da attendersi nel breve medio periodo, quantomeno perché, in ossequio a quanto abbiamo scritto in altra occasione, citando Cicerone, “la storia non vuole salti”, le nazioni della “vera” Democrazia, laicamente intesa, fra cui vorremmo che l’Italia fosse in prima linea, emendata d’ogni confessionalismo, che pure la condiziona e l’attanaglia nell’azione politica d’ogni giorno, decidano, forti della forza dei numeri, di promuovere l’espulsione dall’ONU di ogni Stato che pratichi la pena di morte, che non tuteli la libertà di pensiero e di fede, che non rispetti l’integrità fisica e morale d’ogni cittadino, che non suffraghi le libertà fondamentali dell’individuo, che manifesti, in modo latente o patente, forme di razzismo o di discrimine, basate sulla diversità di sesso, che non tuteli il dirittod’espressione.
Tratto dal documento della Lega Italiana
dei Diritti dell’Uomo Onlus:
Testimonianza
“Report 2008-2009”
Iniziative, documenti, prese di posizioni, deliberati,
lettere, ecc. in materia di diritti, nel biennio
curato da Gian Piero Calchetti e Sara Lorenzelli