ADDIO A JOVINE
di Libero Bigiaretti
Francesco Jovine è morto domenica mattina 30 aprile, alle 7.45. A noi amici, a noi compagni, a noi colleghi, accorsi nella sua casa, la morte ci si è mostrata più che mai ingiuriosa, quasi inesplicabile; al di là, voglio dire, della nostra capacità di far rientrare questa perdita, per la quale ci sentiamo dimezzati, tra le probabilità della sorte umana. Proprio il cuore del nostro amico s’è schiantato, il suo cuore generoso e disordinato. Senza che né lui né noi lo sapessimo, il suo cuore era in disordine certo per la troppo generosa accelerazione dei suoi battiti. Un cuore che aveva dato e richiesto amore a tutti: alla sua Dina, ai parenti, al suo paese, agli amici, ai lettori, ai compagni, alla letteratura, al Partito. Ne abbiamo approfittato un po’ tutti, del suo gran cuore; ed eccoci tremendamente puniti dinanzi al suo volto composto e senza colore.
Ci sembrava inesauribile il suo grande cuore, che per quarantasette anni ha scandito il ritmo ampio e caloroso di un’esistenza piena di giuste passioni, di bontà, di mobilissimo lavoro. Adesso è facile scorgere segni premonitori del suo destino nell’ansia febbrile, nella fretta con cui aveva voluto a ogni costo, senza risparmio, ultimare il suo nuovo romanzo. Lo ha ultimato, ha spedito all’editore il manoscritto che gli è costato anni di lavoro, di apprensioni, di pazienza, di applicazione massacrante, e subito dopo è morto.
E’ facile dire che lui, il nostro caro Ciccio, “sentiva” di dover finire l’opera prima dell’ora ultima della sua vita; è difficile invece spiegare perché tutti noi siamo stati tanto grossolanamente fiduciosi nella sua vitalità, nella sua salute; al punto di non risparmiargli neppure le involontarie offese della nostra sventatezza.Non mi riesce di far combaciare, in questo momento, il mio dolore di amico e il dovere del mio mestiere, che esigerebbe io spiegassi, ricapitolassi per filo e per segno, ai lettori del suo giornale, il cammino percorso da Francesco Jovine, dal 9 ottobre 1902 al 30 aprile 1950: da quando è nato, a Guardialfiera, nel Molise, al momento della sua morte improvvisa, a Roma, su a Madonna del Riposo. Vi sono, tra queste due date, vicende e opere dello scrittore Jovine di cui si parlerà, di cui vorrei parlare io stesso, più tardi.
Adesso posso ricordare soltanto che il suo itinerario ha toccato queste tappe: l’infanzia mortificata nel borgo povero, gli studi condotti avanti a prezzo di enormi sacrifici, la miseria giovanile, la passione letteraria, i libri. Eccoli tutti, i suoi libri, e alcuni di essi sono un acquisto definitivo della nostra letteratura: Un uomo provvisorio, 1934; Ladro di galline, 1940; Signora Ava, 1942; Il pastore sepolto, 1946; L’impero in provincia, 1946; Tutti i miei peccati, 1949; e infine Terre del Sacramento che uscirà tra poche settimane…
Jovine ha conosciuto e amato i poverissimi contadini della sua terra, i cafoni senza pane, gli artigiani senza lavoro, gli uomini del Sud che non hanno altra speranza se non quella di emigrare (come dovette fare sua padre), di andare lontano a vendere la propria salute per un pezzo di pane; ha conosciuto la mediocre esistenza del piccolo borghese, dell’insegnante, che si stringe al suo decoro con disperazione d’affamato; ha conosciuto il duro lavoro intellettuale insidiato giorno per giorno dalla brutale avidità di coloro che reggono il “mercato”. Tutte le storture, le contraddizioni della “società maledetta”, Jovine le ha sperimentate, patite in sé e negli altri.
Basta accennare a queste cose per dichiarare le “motivazioni” della sua appartenenza al Partito Comunista.I lettori dell’Unità, di Vie Nuove, i lavoratori di ogni regione italiana, tra i quali tante volte si è recato a portare la sua parola di solidarietà fraterna, sanno bene che Jovine era un vero compagno, oltre che uno dei migliori scrittori di oggi. Nelle stanze della sua casa, ieri i volti di Togliatti e di Longo esprimevano lo stesso dolore dei terrazzieri del quartiere Aurelio, di Forte Boccea, che entravano, numerosi e sconosciuti, in punta di piedi, con gli occhi pieni di lacrime; lo stesso dolore dei colleghi, scrittori e artisti di ogni tendenza, che piangono l’amico e il probo lavoratore intellettuale.
Si è prodighi di lodi verso i defunti; anche coloro che lo hanno fatto soffrire, in vita, spendono volentieri un elogio per il morto.E così, a parlare delle virtù umane di Jovine, adesso uno di noi, suoi amici, prova quasi scrupolo, o pudore, o timore che si supponga ancora una volta che le parole sono a buon mercato e si spacciano con facilità.Ma è vero che Francesco Jovine è stato uno degli uomini più buoni di una generazione incattivita: è vero che è stato un uomo ingenuamente fiducioso, cioè puro, naturalmente cordiale, disposto alla confidenza, dedito all’amicizia.
Difatti siamo molti, oggi, che ci sentiamo percossi quasi quanto Dina sua moglie, quanto Vittorio, suo fratello.Almeno ha chiuso gli occhi placato, giacché ha potuto condurre a termine il suo romanzo, di cui ci ha tanto parlato, di cui ci ha letto tante pagine con la sua passione di meridionale e di artista. Era rientrato ieri sera da Venezia, dove il male aveva aggredito e, per così dire, avvertito.Disse a Dina, alla sua, alla nostra cara Dina: «Sono felice di aver potuto fare ritorno a casa». Si mise a letto stanco ma sereno: pensava, mentre si accingeva ad attraversare la sua ultima notte, che durante la giornata le agili dita di un linotipista, di un compagno tipografo, avevano composto, lettera dopo lettera, le parole di «Terre del Sacramento»: una forte opera letteraria, il prezzo di una vita.
Libero Bigiaretti
Immagine:morguefile
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Tratto da: Pag. 4 – “L’Unità” mercoledì 3 Maggio 1950