La Serbia pascialato turco (1459-1830)
Scompare con ciò ogni parvenza di autonomia e la Serbia si riduce a una provincia annessa all’impero turco, governata da sangiacchi e pascià.
Il trapasso, contrariamente a quanto si suole credere, non avvenne in forme violente né brutali, ma si operò in modo affatto pacifico, e su basi che, lungi dal far apparire tirannico il nuovo dominio, sembravano garantire pace e sicurezza, e promettevano di riuscire giovevoli al paese.
I Turchi si limitarono ad occupare i luoghi strategici, a dominare le strade, a costituire degli insediamenti cittadini, a sostituirsi insomma alla nobiltà e alla classe dirigente, che parte emigrò e parte fu assimilata, e lasciarono al popolo la sua religione, la sua lingua, le sue terre, non lo turbarono nel lavoro, né, specie i primi tempi, lo gravarono di soverchi tributi e prestazioni.
Irradiazioni di forme di vita e di cultura naturalmente ci furono: le provincie meridionali, particolarmente i centri più grossi, si riplasmarono al modo turco, e non pochi Serbi, specie nobili, passarono all’islamismo.
Moschee e quartieri turchi sorsero dappertutto.
Ma vi furono anche degli scambi: numerosi Serbi agirono come uomini d’arme, di governo e di dottrina presso il sultano.
Il serbo, come lingua e scrittura diplomatica, entrò nell’uso della corte e delle cancellerie di Istanbul.
Fu sciolta, è vero, la chiesa nazionale, in quanto organo politico, ma furono rispettati i monasteri, in quanto istituti religiosi.
Un fenomeno che potrebbe far apparire intollerabile la dominazione turca è l’intensa emigrazione serba nei secoli XV e XVI verso le regioni danubiane.
Le cause però che la determinarono vanno non tanto ricercate nella pressione esercitata dai musulmani, quanto nella naturale e antica ricerca di sedi migliori e nell’incessante opera di allettamento svolta dall’Ungheria e dall’Austria, bisognose di popolare, sfruttare e difendere le fertilissime provincie di confine.
In genere il nuovo dominio fu accettato come una necessaria fatalità che, se poteva straziare moralmente, era tuttavia preferibile al rovinoso caos che prima aveva dominato.
E’ perciò che, per un buon secolo, i Serbi non danno alcun segno di vita e quasi di esistenza nazionale.
Lo storico che, sino a mezzo il Cinquecento, guardi alla Serbia, pur prima tanto ricca di fervida storia, non vede altro che eserciti turchi marcianti per lo Stambugjdol (via da Costantinopoli a Belgrado) verso l’Ungheria, l’Austria, la Romania, il Friuli.
I primi palpiti di un risveglio si colgono appena nella prima metà del sec. XVI, ma non nella vera e propria Serbia soggetta al Turco, bensì nei territori slavi marginali: nelle provincie meridionali dell’Ungheria, nella Slavonia, in Croazia, nel litorale della Morlacca.
Sono dapprima palpiti torbidi e indistinti ristretti al campo letterario che poi, all’epoca della Riforma e Controriforma, si trasferiscono nel campo religioso, per investire infine, nel sec. XVII, il campo politico.
A suscitare e coltivare questo movimento agiscono un po’ tutte le potenze interessate a una politica antiturca: il papato, Venezia, l’Austria, la Polonia e, infine, la Russia.
La Turchia lo nota e, sin dal 1557, cerca di arginarlo e controbatterlo ripristinando l’antico patriarcato di Peć e organizzandolo, in modo da farsene strumento di controllo della vita religiosa e dei sentimenti politici non solo dei Serbi dimoranti entro i suoi confini, ma anche degli emigrati.
Avvenne invece che, nei contatti stabilitisi, gli emigrati, anziché subire una qualsiasi influenza, agissero irredentisticamente sui Serbi del pascialato e li guadagnassero alla causa delle potenze cristiane.
Seguì da parte turca un rincrudire di misure che alienò loro anche le ultime simpatie.
Si che quando, a cominciare dalla seconda metà del sec. XVII, nel declino della potenza ottomana, l’Austria, Venezia ed altre potenze, stringendosi in leghe sante, mossero guerra alla Turchia, trovarono, penetrando oltre il Danubio, popolazioni preparate a insorgere e a coadiuvare la loro azione.
Mercé questo consenso l’Austria, nella guerra del 1683-1699, poté spingersi sin nella Serbia meridionale a Skoplje, Peć e Prizren nella pace di Carlowitz arrotondare i confini meridionali della Croazia e Slavonia.
Dopo la successiva Lega Santa del 1716-18, conseguite le strepitose vittorie di Eugenio di Savoia, si annetté nella pace di Passarowitz il Banato e una larga zona della Serbia settentrionale con Belgrado.
Le campagne del 1736-1739 e 1787-1791 furono invece sfortunate e portarono alla perdita di questi territori.
I Serbi però non ne patirono, giacché, prima ancora che la pace di Svistova (Luglio 1791) ne confermasse la restituzione alla Turchia, il sultano Selim III, incline a instaurare nell’impero un regime liberale, riconobbe loro, nell’ambito della sovranità turca, una certa autonomia e dispose che fossero repressi gli arbitri e le violenze del governo militare dei giannizzeri.
Con un khatt-i-sherīf del 1793 queste concessioni furono solennemente sancite.
Se non che i giannizzeri, dopo qualche anno di compressione, approfittando della profonda crisi nella quale l’impero era caduto appunto per le riforme di Selim, tornarono nel 1799 a impadronirsi del potere e, più avidi e brutali di prima, a tiranneggiare in ogni modo il pascialato.
Poiché la Porta era impotente a scacciarli, i Serbi stessi, in unione agli spahi turchi, deliberarono di affrontarli con le armi.
Nel febbraio 1804, nel convegno di Orašac, si deliberò l’insurrezione, a capo della quale fu posto Karagjorgje Petrović, contadino illetterato, inesperto di arti diplomatiche, ma, come occorreva, prode combattente e inesorabile tempra di capo.
In breve tutto il pascialato fu in fiamme.
Inizialmente il movimento non era diretto contro la Porta, che si voleva anzi aiutare a reprimere i ribelli, ma ben presto assunse il carattere di una vera guerra per l’indipendenza.
Gli insorti non tardarono a portare la questione su terreno internazionale, stabilendo contatti con l’Austria e la Russia e, nei successivi negoziati di composizione, esigendo che questa due potenze intervenissero come garanti dei patti che sarebbero stati concordati.
La Porta, naturalmente, respinse ogni inframmettenza estera.
Si venne allora alla guerra aperta, che, piena di alti e bassi nella mutevole situazione internazionale d’allora, si protrasse sino al 1813, quando, battuto, Karagjorgje con i suoi capi e buona parte delle sue genti, dovette riparare in Austria.
Il dominio della Porta durò però assai poco.
Già nel 1815 scoppiò una nuova vastissima insurrezione capeggiata da Miloš Obrenović, che, duttile e scaltro, seppe non solo imporsi con le armi, ma, appoggiandosi soprattutto alla Russia, lavorare così bene nel campo politico da far sì che con khatt-i-sherīf del 29 agosto 1830 la Porta riconoscesse alla Serbia la qualità di principato indipendente sotto l’eminente sovranità turca e la protezione russa.
Miloš, che frattanto s’era nel 1817 liberato del suo competitore Karagjorgje facendolo assassinare, e nel 1827 era stato acclamato principe per sé e discendenti, ne assunse il governo.
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