IL PASTORE SEPOLTO
La seconda raccolta di novelle, Il pastore sepolto, pubblicata nel luglio del 1945, comprende racconti già apparsi su varie riviste dal ’43 in poi: Il pastore sepolto, Giustino D’Arienzo, e due gruppi di novelle più brevi riunite con i titoli Storie di contadini e Gente di città.
Con il primo lungo racconto, Il pastore sepolto, siamo nell’atmosfera spirituale ed artistica di Signora Ava, nei suoi toni ironico-fabulosi, nei motivi mitico-storici, ne è la continuazione anche storicamente perché è ambientato nel periodo post-unitario. I drammatici anni ’80 e ’90, quando la miseria delle campagne meridionali diviene terribile e porta l’evasione migratoria oltre Atlantico; a sua volta, la “fuga” dalle campagne è causa del crollo economico per la borghesia agraria. Altro elemento meridionale della novella è la credenza popolare nelle leggende di tesori nascosti.
Memoria, folklore e storia sono ben armonizzati fra loro negli effetti stilistici, con validi risultati narrativi.
La trama prende avvio dalla rovina di un’antica famiglia benestante: il patrimonio è stato compromesso dall’abbandono della terra e dagli sperperi dei generi, avvezzi ad abitudini cittadine e non più patriarcali.
Per pagare i debiti bisogna vendere la proprietà e di questa “mala sorte” risente i colpi la minore delle figlie, Albamaria, che, senza dote, vede sfumare le nozze con don Igino, un “giovane galantuomo” condizionato dai calcoli dei suoi famigliari.
Poi - narra in prima persona il nipote- accade che il nonno, -figura simbolica e rituale-, faccia un sogno, “un bel sogno benedetto”: una stella lo ha guidato nei pressi di un convento, in una grotta ove sono nascoste grosse pignatte di terracotta piene d’oro.
Tutti si esaltano al pensiero di poter scongiurare la sciagura piombata sulla loro casa e progettano di rintracciare “di notte in pochi uomini fidati”, il tesoro sepolto.
La realtà è presto deludente: dissotterrato il sarcofago, si rinviene in esso una statua, un pastore coi capelli ricciuti ed un agnello sulle spalle.
Albamaria e il nipote ritornano da soli, in un’estrema speranza di trovare qualcosa. Vincendo la sensazione di compiere quasi un sacrilegio (il Buon Pastore era oggetto di culto nelle popolazioni contadine), la giovane tronca la testa della statua con un colpo di martello ma l’interno è vuoto. Rientrata in camera prorompe in un pianto disperato e il ragazzo nulla può fare per consolarla.
In parallelo alla progressiva decadenza di una famiglia, il racconto presenta il dramma dell’emigrazione contadina che dissangua la terra. I ricchi decaduti sperano nell’oro della statua, i braccianti sono allettati dal mito dell’America: in entrambi i casi si tratta di un’illusione, pur se diversa è la natura di essa.
La prima è irreale perché fondata su di un improbabile miracolo, la seconda è legata alla realtà amara dei “senza terra”, per i quali non c’è altra scelta che andare lontano e affrontare una vita altrettanto grama. Il loro assillo costante, infatti, sarà quello del risparmio, al fine di acquistare, con le “rimesse” inviate a casa, qualche pezzo di terra dai borghesi impoveriti a loro volta dall’esodo migratorio.
Dopo il Pastore sepolto, Jovine sembra saldare il conto con il Molise dei miti. D’ora in avanti, descriverà la sua regione con una maggiore concretezza, derivante dalla maturazione artistico-umana e dall’impegno socio-politico che caratterizzerà le opere future.
Del 1943 è il secondo lungo racconto, Giustino D’Arienzo, che si richiama al primo per la complementarietà dei temi: la campagna e la città.
Ha i suoi antecedenti in Un uomo provvisorio, Ragazza sola, Dieci settimane, perché propone di nuovo “l’odissea interiore dei giovani provinciali che cercano la loro via in una città” (Russo) e le conseguenze frustanti di uno sradicamento dalla realtà storico-sociale di origine.
L’arte narrativa di Jovine ha però guadagnato in misura e profondità; analizza l’anima ingenua e buona di Giustino facendo leva sulle vicende esterne e sui vivi ritratti di altri personaggi più che sul sondaggio psicologico.
E’ la storia di un giovane universitario di modesta condizione sociale, che accetta di fare l’istitutore in un collegio di città.
Non riesce ad inserirsi nel nuovo ambiente, è insoddisfatto e cerca una impossibile evasione nell’amore per la ricca Saveria Angrisani. Si sente trasformato ma l’illusione è breve: ai poveri non è consentito fare progetti. Respinto dalla famiglia Angrisani, abbandonato dalla stessa Saveria, non reagisce e ritorna rassegnato nei propri ranghi, chiedendo di restare in collegio.
Giustino, come Pietro, è un vinto. Tuttavia, non ha la debolezza di carattere del protagonista di Dieci settimane (come lui giovane istitutore) né la rassegnata abulia di Giulio Sabò, protagonista di Un uomo provvisorio.
I motivi della campagna e della città nelle due ultime parti, Storie di contadini e Gente di città, non persuadono pienamente perché sono di livello inferiore, di tono discontinuo e spesso sulla tematica prevale l’esigenza stilistica.
Tratto da:
Francesco Jovine
Redatto a cura di: Anna Maria Sciarretta Colombo
Con la collaborazione di: Miranda Jovine Tortora
Della F.I.D.A.P.A (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari) Sezione di Termoli (CB).
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