In memoria ad Antonio Gelsomino
Monday, December 30, 2024

L'Impero in Provincia

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L’IMPERO IN PROVINCIA

Nel clima intenso del dopoguerra nasce e viene pubblicata (1945) L’impero in provincia, una raccolta di sei novelle di argomento storico-cronachistico: episodi di vita in un piccolo centro del Molise, durante il ventennio fascista.

I giudizi critici sono discordanti: a L. Russo che vi rileva la “mancanza di una profonda umanità”, ribatte M. Grillandi, ”a noi sembra invece che questa umanità non manchi, anche se essa esiste in modo discontinuo” (M. Grillandi, F. Jovine, Mursia, Milano 1971, p. 82).

 

Convergenti in una positiva valutazione sono G. Giardini e N. Sapegno, mentre i più recenti studi monografici si E. Ragni e N. Carducci obiettano che Jovine fallisce lo scopo prefissatosi: fare il resoconto dell’avvento del fascismo nel contado di Molise. “Il dramma di questa folla molisana non riesce a trovare forza né in una trasfigurazione della memoria (Signora Ava) né in un’ironia che stacchi lo scrittore dalla materia” (E. Ragni, op. cit., p. 104); tale ironia è bruciante, meno serena del solito, perché la piaga è troppo recente. Ragni indica degli squilibri strutturali nella caratterizzazione dei personaggi e nella motivazione dei loro drammi (per esempio, in Martina sull’albero, Michele a Guadalajara, La rivolta).

N. Carducci sottolinea che, sul piano “fantastico”, la rievocazione risente degli stati d’animo non del tutto placati per cui sopravvive “l’impazienza della denuncia, l’irruenza del sarcasmo, l’assalto polemico” (N. Carducci, op. cit., p. 74).

I sei racconti ricordano gli eventi di cui è stato teatro un Molise sempre emarginato dalla storia nazionale e pur chiamato dall’Impero fascista a dare il suo contributo in miseria e sangue per la vita della patria e la conquista delle colonie.

Jovine sa ben individuare il terreno adatto per innestare la satira: lo scontro inevitabile tra la congenita ”menzogna della propaganda fascista e l’altrettanto congenita diffidenza” del contadino meridionale.

Nel primo, Vigilia, siamo nei tempi della Marcia su Roma, quando Guardialfiera è turbata dall’eco della rivoluzione fascista: alcune squadracce di neri arrivano in provincia a cercare proseliti tra i poveri ignari e i signorotti opportunisti.

Monumento storico è la satira delle esibizionistiche parate del regime. C’è l’ordine di celebrare il 24 maggio con una marcia per visitare un monumento storico. La comicità scaturisce dal fatto che i gerarchi fascisti vanno inutilmente in cerca di un rudere qualsiasi per eseguire le disposizioni giunte da Roma.

Più poetico ed umano è il terzo racconto, Michele a Guadalajara, storia di un barbiere legionario in Spagna per fame e reduce deluso; dopo la guerra ha un braccio in meno e un figlio in più, non suo.

Incisivo il tema del volontariato di operai e contadini in Africa o in Spagna, come unica “emigrazione” possibile dalla loro miseria.

Vivace è Martina sull’albero: una povera contadina sopporta ogni vessazione dalla Patria, multe, la fede d’oro, ma quando vogliono prenderle il maiale, -ormai unica sua risorsa-, si ribella, sale sull’albero, bombarda con le pere gli zelanti funzionari travestiti da fantasmi per spaventarla, e li costringe alla fuga.

Gli ultimi due, La casa delle tre vedove e La rivolta, presentano episodi dell’occupazione tedesca tra settembre ’43 e primavera ’44, quando anche nei paesi sperduti del Molise arrivano i rumori della guerra e si susseguono militari diversi: gli italiani dispersi, i tedeschi in ritirata, gli alleati che avanzano.

La casa delle tre vedove ha due temi: il ricordo ossessivo del marito morto e la brutalità dell’occupazione nazista.

Laura, per non profanare la memoria del marito, arriva all’assurdo di dormire a terra; i tedeschi, in cerca di armi nascoste, violano con le baionette coperte e materassi, ella si oppone e viene uccisa.

Ne La rivolta, il paese, dopo l’illusione che sia iniziata l’”autonomia dalla legge”, -per lo sbandamento del governo centrale alla fine del ’43-, è costretto a disilludersi vedendo che di nuovo in municipio c’erano “quelli che scrivevano”; in un cieco furore di ribellione viene appiccato il fuoco.

La rivolta conclude, fino a questo momento, la mia rievocazione dei casi e dei moti dell’anima meridionale. E’ una rievocazione che avevo iniziato con Signora Ava e che avevo continuato con Il pastore sepolto e che forse, se mi basteranno l’ingegno e il tempo, troverà altre espressioni nella mia opera futura”, (F. Jovine, Come ho visto la società meridionale, in La voce, 19 dicembre  1947).

 

Tratto da:

Francesco Jovine

Redatto a cura di: Anna Maria Sciarretta Colombo

Con la collaborazione di: Miranda Jovine Tortora

Della F.I.D.A.P.A (Federazione Italiana Donne Arti Professioni  Affari) Sezione di Termoli (CB).

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