TUTTI I MIEI PECCATI
I due racconti lunghi, Tutti i miei peccati e Uno che si salva, sono riuniti in volume e pubblicati nel 1948. Diversi per la trattazione e lo svolgimento, sono ispirati da un’esigenza morale e da temi analoghi ad altre opere, specialmente Un uomo provvisorio e Ragazza sola: il contrasto città-provincia e i problemi del provinciale inurbato.
Anche su questo libro, la critica ha formulato giudizi divergenti nel corso del tempo, che vanno dalla stroncatura netta da parte dei contemporanei alle riabilitazioni più meditate degli studiosi recenti.
Nicoletta Rostagno, protagonista di Tutti i miei peccati, nella lettera ad un sacerdote confessa la sua storia di errori e di sventure. Ancora adolescente, si trasferisce con la famiglia dal nativo Abruzzo a Roma, ove incontra difficoltà ad inserirsi tra le compagne di scuola a causa delle sue origini “paesane”, malgrado l’agiata posizione cui appartiene per l’importanza funzione ministeriale del padre oltre che per le proprietà terriere.
L’estraniamento le fa accettare la corte di un corregionale, Mario de Francisci, un tenente di marina che si è integrato nei costumi cittadini fino al cinismo; egli la seduce, la sposa, - costretto dal padre di lei -, poi parte per una crociera e non fa più ritorno né dà sue notizie.
Nicoletta cerca di ritrovare l’equilibrio nel lavoro e nell’affetto per la bambina nata dal suo errore giovanile; ottiene l’annullamento del matrimonio per morte presenta del marito. Si ricostruisce una nuova esistenza sposando l’anziano Camillo Veltroni, finchè dopo molti anni ricompare Mario e da lui è sottoposta ad un’estenuante serie di ricatti economici e sessuali.
Ormai ha perduto ogni identità e da un “mare disperato di tristezza” non vede via d’uscita: a volte medita propositi suicidi che non ha la forza di attuare, a volte cerca la liberazione nella “preghiera”, senza riceverne il coraggio per redimersi dalla sua debolezza.
“Capisco che dovrei trovare la soluzione di questa insopportabile vita, ma non riesco a dipanare il groviglio delle mie sventure e dei miei peccati. Non riesco a piangere sulla mia sorte e non riesco a condannarmi”.
Il confessore è per Nicoletta l’ultima possibilità di salvezza: chiede a lui “come fare” per alimentare “l’ultima scintilla di rettitudine che si va fatalmente spegnendo nella sua anima”.
Si è rivolta a lui per lettera perché in un dialogo non saprebbe rispondere alle sue domande; ha bisogno “solo di ascoltare una voce ferma, una voce serena” che l’aiuti a ricondursi a Dio.
Subito dopo la pubblicazione, i critici del tempo (Cecchi, De Robertis, Bocelli, ecc.) negarono requisiti artistici al primo racconto e si occuparono più del secondo. Successivamente, ci sono stati vari tentativi per comprendere meglio il testo. G. barberi Squarotti parla di “indagine tesa, essenziale, precisa di rapporti morali, di legami dei sentimenti e delle convenzioni sociali… quell’analisi delle colpe come rampollanti dalla costrizione e dall’ossequio alle ipocrisie della borghesia, quella descrizione angosciosa del senso di soffocamento dell’anima che ne deriva” e riscontra “uno degli esiti più sicuri dello scrittore” (G. Barberi Squarotti, La narrativa italiana del dopoguerra, Cappelli, Bologna, 1965, pp. 111-112).
G. Pullini evince la “modernità” di Jovine nel saper creare personaggi di “intrinseca debolezza” di fronte all’ambiente piccolo-borghese in cui vivono e da cui sono tentati.
Il tema dell’inurbamento che condiziona l’esistenza di Nicoletta.
Nel contrastato quadro critico su tale racconto, si può concludere che esso, oltre ad essere uno scritto di liberazione o un nuovo banco di prova, è un’ulteriore testimonianza della “moralità” di Jovine, del suo costante impegno educativo, della sua tensione “a studiare l’animo umano”, a entrare “nel labirinto delle nostre passioni, accompagnandoci per le vie del bene e del male… curiosa dei modi per cui l’uomo si perde e si riscatta” (G. Petronio, Moralità di Jovine, in L’ora del popolo, 26 novembre 1948).
Nel contrastato quadro critico su tale racconto, si può concludere che esso, oltre ad essere uno scritto di liberazione o un nuovo banco di prova, è un’ulteriore testimonianza della “moralità” di Jovine, del suo costante impegno educativo, della sua tensione “a studiare l’animo umano”, a entrare “nel labirinto delle nostre passioni, accompagnandoci per le vie del bene e del male… curiosa dei modi per cui l’uomo si perde e si riscatta” (G. Petronio, Moralità di Jovine, in L’ora del popolo, 26 novembre 1948).
Migliore e indiscusso è il livello artistico di Uno che si salva, pur se il motivo ispiratore è simile. Il tema dell’intellettuale di provincia che cerca evasione in città e dissipa le sue nobili aspirazioni in abitudini torbide è lo stesso di Un uomo provvisorio e di Giustino D’Arienzo.
La trama è impostata sulla figura di Siro Baghini, studente universitario che, per aiutare la famiglia, insegna in una scuola elementare. Egli si sente prigioniero in provincia, vede la scuola come “un’orribile tana” e vive inquieto in solitudine sprezzante, farneticando evasioni o suicidi.
La prima parte del raccolto si conclude con la decisione di andarsene in città a completare gli studi universitari.
Nella seconda parte, la narrazione si completa con la varietà delle esperienze in cui il giovane è invischiato nella metropoli: la pensione equivoca e squallida ove alloggia, la bisca clandestina ove si copre di debiti, le avventure disordinate ed immorali.
Siro Bagnini, come già Giulio Sabò o Giustino D’Arienzo, ha una psicologia velleitaria, con residui di superomismo dannunziano.
Siro, come Nicoletta, smarrisce la propria identità e diventa un candidato al delitto (“portava per sempre, in sé, come un veleno, quella possibilità omicida”).
Accanto a lui compare una figura femminile saggia, dignitosa, amica: Emma Gherardi che, orfana e povera, studia, lavora, accudisce ai famigliari. Ella ne capisce il dramma, si preoccupa di parlargli, con lucidità e disinteresse, lo convince che vale più la vita sicura in provincia che il rischio fatuo della città, nel cui “frenetico moto”, tra l’altro, Siro è travolto senza saper reagire.
Grazie ad Emma, - che gli salda anche un debito e gli paga il biglietto per tornare al paese -, Siro può essere finalmente “salvo”; parte, “con gli occhi fermi e tranquilli”, verso una realtà che non ha mai potuto dimenticare, verso i “compiti duri” cui lo richiamano gli occhi tristi di sua madre che lavora come una serva per riportare la casa agli “antichi splendori”.
Per quanto molto vicino a Giulio Sabò, Siro Baghini è narrativamente più accettabile e psicologicamente ben delineato: la sua rigenerazione, gradualmente preparata e maturata, non giunge all’improvviso, senza una giustificazione, come quella di Sabò; e alla fine egli, come Pietro Veleno, recupera in pieno la sua innocenza.
Diverso è pure il contesto storico; tra Un uomo provvisorio, Ragazza sola, Uno che si salva, c’è di mezzo la tragedia della guerra e la volontà di “rinascita” dell’immediato secondo dopoguerra.
La “salvezza” non è più solo intellettuale, individuale, è anzitutto morale, nella riconquista di un’integralità di coscienza umana e sociale.
Tratto da:
Francesco Jovine
Redatto a cura di: Anna Maria Sciarretta Colombo
Con la collaborazione di: Miranda Jovine Tortora
Della F.I.D.A.P.A (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari) Sezione di Termoli (CB).
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