Signora Ava (1942) di Francesco Jovine il Molise contadino e l’Unità d’Italia
Introduzione
Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il “la”; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, è quanto la regina di Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.*
Sono le parole pronunciate dal principe Fabrizio Salina, emblematico protagonista de Il gattopardo, rispondendo al cavaliere Aimone Chevallay di Monterzuolo, segretario della prefettura che avrebbe dovuto intrattenerlo di un argomento che stava molto a cuore al governo.
Prima dell’unità d’Italia, il governo borbonico aveva contribuito al radicale ed approfondire le differenze di natura socioeconomica e culturale sia tra il meridione e il resto della penisola sia tra le diverse popolazioni del Regno, di Napoli: alla posizione preponderante della capitale, Napoli, e al conseguente centralismo politico e amministrativo si contrapponeva il resto del Regno, per lo più abbandonato agli abusi o all’incuria dell’amministrazione locale e ai soprusi dell’aristocrazia latifondista.
In tale contesto si distingueva in particolare la situazione della Sicilia, con il suo antichissimo è peculiare patrimonio culturale, che da sempre aveva rivendicato una propria autonomia rispetto a Napoli.
Caratteristico della letteratura napoletana è il realismo istintivo, spesso venato di malinconia o ironia, è colato in forme icasticamente espressive.
Questa tradizione già rappresentata da scrittori come Matilde Serao (1857-1927) Salvatore di Giacomo (1860-1934), è per il teatro Eduardo Scarpetta (1853-1925) è Raffaele Viviani (1888-1950) perdurò anche nella seconda metà del Novecento.
La condizione della Napoli borbonica rispetto alle sue province continentali appare storicamente isolata e, per molti versi, privilegiata; proprio la posizione preponderante è accentratrice della capitale può anzi essere considerata una delle cause originarie dell’arretratezza e del malessere del resto del meridione, come mise in luce già statista Francesco Saverio Nitti (1868-1953) nel trattato “Nord e Sud” (1900) è, infatti, anzitutto al governo borbonico, ottusamente centralizzato e burocratizzato, che si possono far risalire alcune pesanti eredità storico-antropologiche che hanno condizionato lo sviluppo del meridione (e che fanno sentire ancora oggi, in modi e forme diverse, alcuni dei loro effetti), quali la sfiducia e il fatalismo nel modo di concepire e vivere la relazione tra pubbliche istituzioni ed individuo e il protarsi, anche dopo il 1861, di fenomeni qual il feudalesimo e il clientelismo nei rapporti tra classi egemoni e proletariato.
Ciò che venne messo in discussione nel dibattito postunitario sulla questione meridionale, tuttavia, non fu il processo di unificazione nazionale in sé, quanto le modalità d’inserimento del Sud nel nuovo stato: già lo storico Pasquale Villari (1826-1917) per esempio, rilevava nelle sue “Lettere meridionali” (1875) la mancanza di comunicazione tra le istituzioni e la popolazione, mentre il socialista Gaetano Salvemini (1873-1957), critico spietato di Giolitti, denunciava criticamente il meccanismo di sopraffazione che si realizzava in particolare nella prassi politica ed elettorale.
Nel primo dopo guerra continuò il dibattito meridionalista, guidato soprattutto dagli intellettuali di area cattolica è da quelli socialisti e sviluppatosi poi in opposizione al fascismo, che addirittura, nella propria esaltazione dell’unità nazionale, negava l’esistenza di una questione del Mezzogiorno.
Per questo, durante il Ventennio, il meridionalismo divenne un aspetto dell’antifascismo e predilesse, per la rappresentazione del paese reale contro il facile trionfalismo di regime, forme espressive che prendevano al Neorealismo del dopoguerra.
Una delle più lucide analisi della questione meridionale è senza dubbio quella del massimo rappresentante del materialismo storico italiano, Antonio Gramsci (1891-1937), sardo trapiantato a Torino.
Nei suoi Quaderni del carcere del 1934 egli fa risalire la questione meridionale al Risorgimento, quando le «forze urbane» del Nord rinunciarono a coinvolgere nel proprio rapido processo di sviluppo la società meridionale, che appariva loro diversa e forse anche incomprensibile.
I governi liberali di Giovanni Giolitti, poi, trattarono il sud come un territorio coloniale, tenuto a bada attraverso dure rappresaglie poliziesche e soprattutto con l’asservimento di quegli intellettuali che avrebbero dovuto, al contrario, offrire un orientamento politico al malcontento delle masse contadine.
Il fascismo non fece che continuare questa politica: nonostante le iniziative esaltate dalla propaganda come la dura repressione della mafia rurale da parte del “prefetto di ferro” Cesare Mori o il progetto di “bonifica integrare” del 1928, gli equilibri sociali, col loro carico di sopraffazione e d’ingiustizia, non furono affatto alterati. In effetti, il sistematico impiego di metodi militari per stroncare ogni forma di dissenso popolare, sia da parte dei governi liberali sia da parte del fascismo, non fece che consolidare l’avversione della popolazione meridionale alle forze dell’ordine è la sua solidarietà con organizzazioni illegali, dal brigantaggio alla mafia, al banditismo sardo.
D’altra parte la politica di grandi opere pubbliche, come quelle promosse negli anni Trenta da Mussolini quelle finanziate del secondo dopo guerra dalla cassa del Mezzogiorno (istituita nel 1950), contribuì solo marginalmente a migliorare le condizioni della popolazione meridionale, poiché si risolse per lo più, in speculazioni a fondo perduto guidate da apparati di clientelismo individuale, se non di corruzione, è approdate alla realizzazione di opere superflue o incongrue, in gran parte sterilmente incompiute.
Della grammatica condizione del proletariato del sud, assoggettato ai privilegi feudali di poche famiglie di latifondisti e asservito, anche moralmente, a un livello di mera sussistenza, non mancano nel Novecento rappresentazioni incisive, specie in narratori già maturi negli anni Quaranta, come Francesco Jovine, Corrado Alvaro, Ignazio Silone, Carlo Levi ed Elio Vittorini.
Questa letteratura è spesso sospesa tra la tensione simbolica della memoria, che mitizza una mentalità e tradizioni ancora incontaminate, e la realistica, dolorante osservazione dell’ingiustizia e della povertà: Intensa è la rappresentazione delle lotte dei contadini molisani nel romanzo neorealista “Le terre del Sacramento” (1950) di Francesco Jovine che, sulla scorta di Gramsci, assegna agli intellettuali il compito di guidare i paesani all’emancipazione.
La situazione del Sud non migliorò con il boom economico degli anni sessanta, che restò limitato ai grandi centri industriali del Nord: questi, anzi, attrassero una notevole parte della popolazione attiva meridionale, così che l’economia del Sud fu ulteriormente depauperata delle sue risorse umane.
Anche gli intellettuali meridionali tendevano a stabilirsi a Roma o a Milano, centri del dibattito culturale e dell’editoria.
Quando potevano, per esempio nei lunghi “esodi” estivi, gli emigranti tornavano al paese natale. Si radicò così la sensazione che il Sud fosse una terra distante, ma insieme dotata di una misteriosa forma di autenticità, la terra del ritorno a se stessi, che non concede facilmente, tutta via, di ricostituire radici concrete. In luoghi d’origine erano guardati da lontano, spesso attraverso il ricordo acuito è deformato dal sogno e dalla nostalgia.
Vincenza Dott.ssa CASILLO
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI «FEDERICO II»
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
CORSO DI LAUREA IN LETTERE MODERNE
ELABORATO DI LETTERATURA ITALIANA
ANNO ACCADEMICO 2012-2013
* G. Tomasi di Lampedusa, il Gattopardo, Milano, Feltrinelli Editore, 1959, pag 161.
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